CLOVERFIELD
REGIA: Matt Reeves
SCENEGGIATURA: Drew Goddard
CAST: Michael Stahl-David, Jessica Lucas, T.J Miller
ANNO: 2008
A cura di Pierre Hombrebueno
SOMEONE CALL AN AMBULANCE,
THERE’S GONNA BE AN ACCIDENT
SGUARDI E STUDI POST-MODERNI
Ricordo il bellissimo finale di United 93
di Paul Greengrass, quel collasso in
soggettiva che passava il testimone non tanto negli occhi di un personaggio
all’interno del film, bensì in quelli degli stessi spettatori,
catapultati quindi, quasi post-virtualmente, dentro lo stesso occhio della
macchina da presa che si sfracella nel buio.
Ebbene, Cloverfield è esattamente
quel finale dilatato al massimo della sua capienza cinematografica, 85 minuti
di incontrollata schizofrenia paranoica della visione, o meglio, dello sguardo
alla punta massima del post-modernismo più elaborato. Il film di Matt Reeves non solo è riflessione
social-psicologica sulla paura post-11 Settembre (comunque il lato meno
suggestivo con cui possiamo trovare approccio con quest’opera, anche se
quella Statua della libertà mozzata della testa è alquanto brividosa), ma è
anche e soprattutto un elaborato sul rapporto percezione-immagine, facendo di Cloverfield un testo conseguentemente
teorico, forte ed interessante almeno quanto il Redacted di Brian De Palma.
Il film che Reeves (con la produzione
demiurgica di J.J Abrams) porta a
galla è l’essenza della nostra Era del mostrarsi e della sempre più
bandita passività dello spettatore, ormai dotato di mezzi per essere egli
stesso immagine e divulgazione: alle immagini bisogna rispondere con le
immagini, e Youtube ne è la prova
mediatica e sociale più tangibile. Per questo, Hud, il personaggio operatore
della videocamera, sente l’estrema necessità di plasmare tutto quanto
stia accadendo, perché “raccontarlo e basta non è uguale, c’è
bisogno di immagini”. Ed in fondo, questa importanza assoluta data alla
cristallizzazione dell’immagine è palesata fin dall’inizio, da
quella festa dove ogni invitato è tenuto a parlare davanti alla videocamera per
lasciare una traccia di sé, un ricordo che sia tangibile, e soprattutto,
infinitamente ripetibile.
Allora Reeves compie il passo
decisivo esattamente quando decide di girare l’intero film in soggettiva
filtrata, quella della videocamera spia e sostituta dell’occhio e della
memoria; il procedimento non è però documentaristico, bensì una propensione
verso la video-amatorialità, e qui ritorniamo ancora una volta a Youtube, per non dire Real tv. Il tessuto linguistico di Cloverfield è tanto più complesso di
quanto potrebbe inizialmente apparire, perchè in esso sono contemporaneamente
amalgamati il Cinema soggettivo e riproduttivo di una percezione diegeticamente
realistica, ma anche i clichè della Monster movie alla Godzilla, per non citare gli scenari apocalittici alla Children of men. A questo punto, posso
affermare di non aver mai visto un film del genere. Questo mescolarsi quasi
impossibile di documento fictionario e fiction documentato, meticolosa
ricostruzione di una realtà fittizia che ci illude ancora una volta grazie
all’essenza veritiera dell’immagine: sotto questo punto di vista, Cloverfield è uno dei massimi punti
d’arrivo della vocazione ontologica del Cinema secondo Bazin. Reeves non solo mescola i Lumière
a Méliès, ma esaspera il tutto
all’estetica dell’immagine contemporaneo, quello
dell’improvvisazione, dove tutti sono registi e registi è nessuno.
Infatti, Hud lo esplicita chiaramente: “io non sono un
professionista”. Ha la videocamera semplicemente per caso, eppure diventa
il nostro medium per il medium, il suo occhio diventa un tutt’uno con la
camera, e la camera diventa il nostro strumento di visione in diretta. Ecco
quindi la necessità delle immagini confuse nella festa, le smagnetizzazioni
improvvise, le caotiche scene d’azione che proibiscono il montaggio in
quanto sintagmi che sono esattamente unioni di pianosequenze che quasi mai
spezzano l’unità temporale; Azione, diegesi e tempo sono saldamente incollate,
indivisibili: il fottuto bello della diretta. Il caos emicranico delle sequenze
da mal di mare non solo è funzionale, ma addirittura imprescindibile per
calcare al massimo l’idea del live. E allora, sadicamente parlando, il
film non cala mai di ritmo neanche per mezzo secondo, gli occhi rimangono
saldamente aperti anche se continuamente disturbati dal disordine
messa-inscenico; il thrill è sempre in agguato, la minaccia, fottutamente
incombente. Questo caos, volente o nolente, è la realtà del nostro post-modernismo.
Le nostre immagini sono esattamente quelle riflesse da Cloverfield, perché ormai siamo giunti all’anno zero
dell’anarchia della Visione. Persino un flashback non è più un flashback,
bensì l’errore di schiacciare Play al posto di Rec in una videocamera dal
nastro già precedentemente usato, espediente, questa, che il regista saprà
sfruttare al massimo sotto il lato enfatico, come nella scena finale del
documentato ritorno al passato, poco dopo un “ti amo” che si dilata
nell’ultima esplosione che ha accecato la vista. L’operatore sarà
anche morto, ma quel che sopravvive è il nastro, ormai unico testimone
dell’accaduto. Un po’ come a dire che il Cinema è, ancora una
volta, l’ultimo mezzo per l’immortalità e la memoria.
Anche per questo, Cloverfield dovrebbe
essere studiato in tutte le Scuole di Cinema.
(07/02/08)