COLLATERAL

REGIA: Michael Mann
CAST: Tom Cruise, Jamie Foxx, Jada Pinkett Smith
SCENEGGIATURA: Stuart Beattie
ANNO: 2004


A cura di Francesco Giulioli

FAUST SULLA METROPOLITANA

(Attenzione: SPOILERS)

Collateral è stato uno dei pochi film della scorsa stagione capaci di suscitare un entusiasmo pressochè unanime nella critica. Al pari di Million Dollar Baby, il film di Michael Mann ha avuto un trattamento speciale forse perché visto come un baluardo della classicità cinematografica, come un esempio di cinema americano che si inserisce nella tradizione nobilitando i generi. In entrambi, lo status “classico” viene guadagnato con la forza del mestiere; a partire da una sceneggiatura che in effetti, nel caso di Collateral, oscilla pericolosamente fra il tradizionale e il convenzionale, basata com’è su una serie di situazioni-tipo quali il gioco dei caratteri opposti, l’involontario e iniziatico patto faustiano del protagonista con il killer, il tutto in una notte ecc. Del resto si tratta allo stesso tempo di un film hollywoodiano con superstar (Cruise) e di un film d’autore (Mann); certo, definizioni piuttosto larghe e abusate, ma indicative. La presenza del regista si avverte nello splendore delle immagini, in cui fotografia digitale e montaggio, ben servite dalla colonna sonora, dipingono la notte di Los Angeles e le sue infinite strade. Il tributo alla commercialità del blockbuster è pagato dagli schemi narrativi accennati e dal finale tutto azione e suspense, in cui i protagonisti si affrontano prima in un grattacielo vuoto e buio e poi su una metro in corsa; una caduta di tono che pochi critici hanno voluto rilevare.

In effetti, rispetto al film di Eastwood, chiuso nella sua sferica perfezione, Collateral si presenta come un oggetto più discrepante e screziato, e forse anche più interessante. In un certo senso, la banalità del finale è il rientrare nei ranghi di un film segnato da elementi fortemente innovativi, a partire dalla caratterizzazione di Vincent. Fra i tanti assassini professionisti apparsi sullo schermo, il personaggio interpretato da Tom Cruise è forse il più integralmente professionale. Nel suo agire non troviamo traccia dei consueti richiami all’erotismo o all’estetica dell’omicidio, gesto da cui egli non trae alcuna sorta di morbosa gratificazione, e di cui non si compiace come di fronte a una forma di opera d’arte. Del tutto privo di passioni, Vincent ammette di non sapere perché uccide proprio quelle persone (anche se è abbastanza esperto da immaginarli testimoni scomodi). Il suo rapporto con le vittime è di lavoro, impersonale, solo un insieme di coordinate segnalate dal suo portatile: ad altri verrebbe chiesto di vendergli una polizza assicurativa, a lui, di ucciderle. Privo di ‘vezzi d’autore’, ha un unico marchio di fabbrica, quello di far fuori tutte le sue vittime in un’unica notte, accompagnato da un tassista che ucciderà in modo di farlo passare per il colpevole. Uno schema votato alla pura efficienza, e all’interno del quale gli è permesso di improvvisare quanto più possibile.

E improvvisazione è la parola chiave del personaggio, sia come principio di imprevedibilità, di cui gode nel locale jazz, sia come adattamento darwiniano all’ambiente, adombrato nell’epifania del coyote metropolitano. Vincent è un maestro delle situazioni e la sua dimensione naturale è il presente, è l’istante in cui l’azione si deve svolgere nel modo più adatto al conseguimento dell’obiettivo. Non si lascia dunque ingabbiare dagli schemi prestabiliti: anche quando le cose non vanno secondo i piani, anche quando Max getta il portatile con tutte le informazioni, sarà in grado di elaborare nuovi ed efficaci piani d’azione. Improvvisando o, se vogliamo, adattandosi. Disinteressato al passato delle sue vittime, non vincolato da attese sul futuro, Vincent si presenta sotto il segno di una mancanza totale di profondità, di una visione nichilista del mondo in cui nulla ha senso (‘non c’è una ragione valida per vivere o per morire’) se non il proprio lavoro, il dovere professionale cui si richiama spesso. Conseguentemente, è anche privo di un passato, di una storia che lo renda leggibile, che lo giustifichi. L’infanzia traumatica che racconta a Max è un vero accumulo di clichè che, concluso dal colpo di scena del padre violento ammazzato da lui appena dodicenne, rivela essere solo un canovaccio improvvisato; per accontentare momentaneamente il bisogno di senso di Max, ma anche per irridere il bisogno di spiegazioni del pubblico, cui spetta decidere se ci sia del vero nel racconto, e in che proporzione.

È chiaro a questo punto che il confronto Vincent/Max che anima il film, va ben al di là del classico gioco dei caratteri contrapposti e dei ruoli narrativi conflittuali (sequestratore e vittima), su cui pure si basa la suspense del racconto. Si tratta di un’opposizione densamente filosofica, che assume in parte i tratti di un notturno viaggio iniziatico. Benchè portatore di un vuoto di valori, Vincent ha qualcosa da insegnare a Max: la riappropriazione del tempo presente – e quindi dell’azione – da cui appare alienato. Al contrario del killer, il tassista – che pure è abilissimo nello scegliere sempre i percorsi migliori – non si considera un vero professionista. Per lui è solo un’occupazione temporanea in attesa di riuscire a realizzare il suo sogno: gestire una linea di splendide limousine che rendano il viaggio un’autentica vacanza. Un’attività temporanea che dura però da più di dieci anni, e non è difficile ipotizzare che il sogno per Max abbia soprattutto l’effetto di estraniarlo dalla quotidianità, esigenza rappresentata anche dal suo costante guardare la cartolina di un’isola esotica: una forma di sollievo, di vacanza, e quindi di assenza. Il suo è dunque un futuro immaginato che rende immobile il presente; e a distanziarlo ulteriormente dal sempre vigile ed adattabile Vincent c’è anche un passato (appena suggerito), rappresentato dal breve incontro nell’ospedale con l’anziana madre. Presenza che si intuisce alquanto ingombrante, e che egli blandisce spacciandosi per quel proprietario di limousine che ancora non è.

Questa pressione di passato e futuro implica una menomazione dell’agire, come è chiaro dal suo atteggiamento rispetto alla bella donna appena conosciuta nel suo taxi, che gli ha lasciato il suo numero; è proprio Vincent che lo invita a chiamarla, avendo capito che lui non lo farà mai. In questo senso appare emblematica la scena nel locale jazz, su cui il film scarica una tensione particolare, concedendo a un assassino così poco incline ai fronzoli di giocare per un attimo. Dal punto di vista di Vincent si tratta quasi di un omicidio ideologico. Il proprietario in fondo non muore perché sbaglia la risposta, ma perché è un nostalgico irrealizzato, uno destinato a raccontare tutta la vita il suo unico momento di gloria (una jam con Miles Davis) senza aver realizzato le aspettative sollevate da quell’evento. È insomma un Max prima dell’incontro iniziatico con Vincent. Il corso degli eventi infatti spingerà il primo verso l’azione e il pericolo e, costretto a impersonare il secondo davanti a un gruppo di criminali, ne uscirà fuori grazie a un’arte dell’improvvisazione appresa molto rapidamente (forse troppo: è del resto uno dei momenti convenzionali del film). Ma il culmine dell’identificazione con Vincent si ha nella scena in cui lancia il taxi a velocità folle. Qui, oltre alla capacità di agire, egli assume in sé anche il nichilismo del suo maestro: se nulla ha senso perché preoccuparsi dello schianto?
Dopo l’incidente, il confronto perderà i suoi tratti filosofici per farsi più che altro fisico, con Max impegnato a salvare da Vincent la bella avvocatessa con cui aveva avuto uno scambio significativo giusto un attimo prima di incontrarlo. A questo punto i due sono definitivamente avversari. Questa interruzione del processo dialettico asseconda le esigenze narrative di un thriller che si avvia alla fine, ma ha anche una necessità logica: se Max è stato risvegliato all’azione (pur senza diventare un eroe adrenalinico alla Bruce Willis), è inverosimile pensare che Vincent possa a sua volta guadagnare qualcosa in umanità. Adattabile ma sostanzialmente impermeabile (proprio perché privo di profondità), il suo destino non è di evolversi, ma di dissolversi in quell’anonimato urbano in cui sa muoversi così bene. Ecco dunque che lo vediamo spegnersi in un vagone della metropolitana dove probabilmente non verrà notato per molto tempo, come nell’anneddoto da lui stesso raccontato in precedenza. L’ultima splendida immagine che lo ritrae è quasi monocromatica, con il grigio della giacca che si confonde nel grigio impersonale della metro, mimetizzandolo e facendolo diventare nulla. Quanto ai ‘buoni’, è concesso infine di salvarsi, ma il tono è molto più cupo di un tradizionale happy end e Max e la donna non sembrano abbandonare la scena come trionfatori, ma piuttosto come sopravvissuti.

(06/11/05)

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