LA COMMEDIA DEL POTERE
REGIA: Claude Chabrol
CAST: Isabelle Huppert, François Berléand, Patrick Bruel
SCENEGGIATURA: Odile Barski, Claude Chabrol
ANNO: 2006
A cura di Davide Ticchi
DIRITTO POSITIVO
In realtà la denuncia di Chabrol non
è rivolta alle tangenti, alla società od ai suoi ruoli, come sarebbe facile
presumere, ma coerentemente isolato ogni “riferimento puramente
casuale” durante l’incipit della sua querela filmica, il parigino
sottintende per quasi due ore il binomio antichissimo
“uomo-potere”, celato dietro la maschera dell’
“avarezza” emozionale. Toltoci subito questo dente fastidioso,
ancora intento a dolere come se tirato da un cavadenti fiammingo, a ricordarci
di essere seduti in una sala cinematografica, di fronte ad un film che stenta a
farci levitare insieme a lui, possiamo partire con la nostra disamina su La
commedia del potere, che parla appunto di potere ma con risvolti molto poco
comici. In verità si tratta di un film semplice, tanto, che pone le proprie
fondamenta su un concetto anche stantio, anche ampiamente trattato, come quello
del potere, che sia in guerra che in pace (un dualismo che in questa stagione e
in questo tempo si fa spesso vivo) è stato avvistato e celebrato forse più di
qualsiasi altro tema umano e quindi artistico apparso sugli schermi di cinema
fino ad oggi. Il potere ha molte facce, infinite forme, è un vero camaleonte, e
camaleonte, oltre che abile dissimulatore, deve apparire l’uomo che ne fa
(ab)uso. Smodato, moderato, illecito, lecito e così via può essere
l’utilizzo del potere, qualsiasi attribuzione gli si faccia questo avrà
sempre qualche ripercussione nel sociale, anche su di sé. Potrà ritorcersi contro
il suo fruitore, come un cavallo imbizzarrito di cui qualcun altro sembra avere
però in mano le briglie, perché l’unica cosa certa è che questo
“cavallo” non resterà mai senza uno smanioso cavaliere…
Ha tutta l’aria di una matrona nevrotizzata dal lavoro, col senso della
maternità, palesato con l’arrivo del nipote in casa, ma con non eguale
abilità nella gestione della stabilità di coppia, alluvionata dal nuovo e
cruciale caso sopraggiunto fra le sue mani. Lei è Jeanne Charmant,
soprannominata Piranha, una giudice scheletrica e con lo sguardo che perfora
gli indagati mentre li interroga, trapassando le lenti di quegli occhiali che
le donano ancora di più un tocco da aguzzino. Come se ce ne fosse bisogno, il
suo potere è assoluto, non vi sono più ostacoli, barriere, formalità fra lei e
un malversatore di denaro pubblico, arcinoto come da noi un Piersilvio
Berlusconi qualsiasi. Ogni riferimento (non) è puramente casuale, ma del resto,
tornando alle origini, come da titolo si sta parlando di una
“commedia”, e come in ogni commedia che si rispetti tutto è da
prendersi col beneficio d’inventario, anche l’avvertimento
iniziale, che nega invece chiari richiami interni al caso Elf; che in Francia
ha suscitato infinito scalpore, ma che a noi sembra interessare maggiormente
sul suo versante figurativo, reinterpretativo e infine cinematografico. Chabrol, il prolifico cineasta quasi
ottantenne meglio noto come iniziatore della Nouvelle Vague francese, ci
permette lo scandaglio di questo episodio socio economico e politico, perché si
sa, da Thomas More fino ad oggi, anche Chabrol
constata che l’isola di Utopia non è ancora stata trovata, e che i soliti
“peggiori” hanno in mano i soldi e quindi il potere politico. Anche
quando questi ruoli si invertono, e chi prima si lamentava davanti alla tv
degli intrallazzi dei pochi noti entra in possesso di un bell’ufficio e
del potere decisionale, il motivo non cambia, l’uomo è uomo e si
differenzia solo in sesso da un suo simile con pari diritti. E così è, la
maggiore vicinanza forse dell’intuito femminile di Jeanne ci permette
l’avvicinamento, la comprensione e l’avvallamento della sua
legittima ma spietata vendetta, un po’ troppo personale, in fin dei conti
come la vorremmo tutti noi davanti alla tv durante il telegiornale. Ebbene se
questo non aderisce perfettamente al vero, la forza carismatica ed eclettica,
ora anche contraddittoria di Jeanne, come di Claude Chabrol, bussa alla porta del nostro essere più arrivista,
condito dall’impulsività che porta anche al trascurare ciò di più caro
per una donna, gli affetti. Ma è un affare di donne. Lasciamoglielo sbrigare
come se fosse un percorso ad ostacoli che giusto conduce alla meta, salvifica.
Inciamperà prima o poi, o qualcuno a lei vicino, il marito ad esempio, in
errore. Un suicidio? Frutto di un abbandono. Non vale proprio la pena di
abbandonare un marito, una moglie, per la Jus. Quella naturale è stato dato
prova essere estorta all’uomo comune, che poi si butta giù da un palazzo
e fa ricadere tutto nel privato diritto positivo, per cui forse conviene
lavarsene completamente le mani.
Parafrasando l’amico e collega Giuseppe Mariani: non sarà la sua estate
di San Martino.
(14/10/06)