COSMOPOLIS di David Cronenberg
REGIA: David Cronenberg
SCENEGGIATURA: David Cronenberg
CAST: Robert Pattinson, Samantha Morton, Jay Baruchel, Paul Giamatti, Kevin Durand, Juliette Binoche
NAZIONALITÀ: Francia, Canada, Portogallo, Italia
ANNO: 2012
USCITA: 25 maggio 2012
L’AVIDO/ARIDO CRONENBERG
È possibile saltare il riassunto delle puntate precedenti degli ultimi Cronenberg dopo l’occhiata affamata di Luca Lombardini, I corpi violen(ta)ti? Dov’è Cosmopolis dentro Cronenberg? Tra le infezioni, nell’accumulo e nello sfogo del secolo scorso, in un rinnovato (ed atteso) riammalarsi o nuovamente in quelle opere già cicatrizzate che lo precedono? Quest’ultima.
L’attività sommessa, continua: il vento western, le promesse dell’est e i ménage/kammerspiel/telenovela-teatro-compressi permettono un nuovo grado di rarefazione, e Cronenberg si ritrova a spogliarsi anche del suo ultimo nascondiglio. Negli ultimi tre film era riuscito a mascherarsi/dimostrarsi (in entrambi i casi: una nuova realtà autoriale, con fanatismo necessariamente da resettare) storyteller di nuova solidità, in cui i corpi perdevano centralità per farsi oggetto integrante del racconto e non più soggetto assoluto (quello che le certezze della narrazione sabotava per riversarle in quelle della stessa sua carne pensante, sensibile, in evoluzione).
Adesso, è la vicenda stessa a spezzare le proprie giunture, portando ad un bivio: l’astratto contro la didascalia, l’invisibile ed in quantificabile salto mentale contro l’elenco. Peccato non poter confrontare Cosmopolis con Holy Motors di Leos Carax (ché Cannes era lontana ed è passata). Cronenberg sembra aver commesso l’errore del principiante (ma senza averne le forze congenite) e (soprattutto) dell’infatuato: rimane aderente al romanzo di Don De Lillo, alla pelle, senza vivisezionarlo, senza cercargli il cuore; o, se l’ha fatto, l’ha fatto per i fatti suoi, a casa, non in fase di scrittura o di regia. Incapsulati in una limousine i personaggi, incapsulate le scene (a bordo e non), senza che nessun momento si stringa ad un altro. Si respirano fine del tempo (quella di Strange days di Kathryn Bigelow, quella di 4:44 Last day on Earth di Abel Ferrara) e l’appendice di un’ultima giornata/notte (in)felice del mondo, ma anche un ideale sipario a scandire con ritmo morto. Robert Pattinson riceve/visita i suoi oracoli e la loro iconicità, ma Cronenberg non-lega e tiene il tutto su un «faccio cose, vedo gente»: l’alienazione da dilagante diventa divagante, la follia distacco. È come se si sentissero i ciak prima di ogni nuovo piano. E topi nell’esergo, topi nei dialoghi, nelle strade e nei ristoranti, poi dimenticati. Cosmopolis è una malattia, sì, ma senza sintomi: e di quelli – di ciò che c’è nell’inquadratura – c’è bisogno, ed invece anche lo stesso Pattinson appare come una sottrazione al campo visivo, in tagli tanto intimi quanto distratti, indecisi. Gli occhi non sono né i suoi (manca la forza di una semisoggettiva) né quelli del malessere-nel-complesso, senza osservazione, ricerca, fissazione, senza entrare nel vuoto. Didascalie ed elenchi, dunque, album e gallerie: il buio sulla vita di Eric Packer si fa smog, i fantasmi che ha attorno semplici luci, profeti sedati; il caos (interiore, collettivo) una coreografia imperfetta, Rothko un nome, i giochi seduttivi chiacchere, un omicidio un semplice passaggio, una resa dei conti un secco finale.
La contemplazione di Cronenberg è giunta all’eccesso, come d’una certa avidità realizzativa, per interiorizzare, per conservare e non trasmettere, persa la fede nel fisico stesso, in un annichilimento sempre maggiore di tutto il potenziale, distrazione, perdita o (superfluo) gioco-d’aldilà dell’autore. Anche A dangerous method supera Cosmopolis in morbosità, acume, fame, voglia; e forse non importa più che sia una scelta.