C(o)unt to Zero Dark Thirty: BLUE STEEL – BERSAGLIO MORTALE di Kathryn Bigelow
REGIA: Kathryn Bigelow
SCENEGGIATURA: Kathryn Bigelow, Eric Red
CAST: Jamie Lee Curtis, Ron Silver, Clancy Brown, Elizabeth Peña, Louise Fletcher
NAZIONALITÀ: USA
ANNO: 1990
METALLO NON METALLO
La terza performace di Kathryn Bigelow è principalmente un involucro visivo, membrana all’interno della quale (ri)trovare quanto di meglio il poliziesco americano abbia saputo offrire nella decade immediatamente precedente; la stessa che Blue Steel si appresta simbolicamente a chiudere, e quindi ad omaggiare, seppur con intenzione quiescente ed esclusivamente formale. Bersaglio Mortale è testo linguistico che della letteratura cinefila fa sostentamento: merito, principalmente, del direttore della fotografia Amir Mokri, in grado di catturare le medesime tonalità limitrofe a quelle che avevano illuminato Strade Violente, Manhunter, Robocop e Black Rain; crema degli ’80, precedenti dallo spessore monumentale, spiati da spettatore e rielaborati da operatore. Procedimento capace di regalare a Blue Steel quella tavolozza tra il metallico e il cemento bagnato adatta ad esaltarne i contorni.
Al linguaggio da applicarvi provvede il gusto registico decisamente B(is) della Bigelow, encomiabile nell’immergere la pellicola in un inferno notturno, metropolitano e senza ritorno, quasi John Carpenter si fosse impuntato nel dirigere il remake non autorizzato de L’angelo della vendetta di Abel Ferrara sceneggiato da Eric Red, già con la Bigelow nel precedente Il buio si avvicina ma sopratutto mente dietro il cult tutto anni ’80 The Hitcher, diretto da Robert Harmon. La struttura ideale insomma, per consentire all’autrice di muoversi in acque familiari, quelle di un genere muscolare grazie al quale tornare a fare i conti con il feticismo degli oggetti già segnalato(si) in Loveless, per poi decentrarsi verso un immaginario meno pittorico e decisamente più cinematografico, che alla sperimentazione in stile nouvelle vague dell’esordio, contrappone la volontà di rileggere, dall’interno, un preciso frangente delle produzioni americane anteriori a Blue Steel.
Edward Hopper quindi, cede il posto ad uno sguardo prossimo al cyberpunk. Uno Tsukamoto semplificato, ridotto all’osso, ciò nonostante manifesto nella sua androginia attoriale che, a partire dai titoli di testa, esalata la fusione di carne e metallo (ritornello, quello della liaison tra la polpa umana e il ferro del revolver, che attraverserà l’intero film), tenuti assieme dal collante della divisa, mentre la regia rinchiude i corpi in spazi angusti, imprigionandoli in inquadrature simili a quelle di Loveless, non fosse per quei colori accesi ormai inesistenti, arresi al metallo che a macchia d’olio si dipana, corrodendoli fino a sfigurarne del tutto il ricordo.
Evidentemente soddisfatta della crescita dimostrata, Kathryn Bigelow torna a confrontarsi con la sua opera prima nei pressi del finale, astraendo i tempi del racconto per poi condurre al limite la rarefazione degli spazi, fino al momento decisivo, all’interno del quale Blue Steel (ri)trova la sua collocazione storica: pellicola di transito tra gli ’80 e i ’90 del genere, ultima fatica prima della consacrazione (Point Break), step soffocato in una città alla quale è stato strappato via il cielo, che fa già pensare a David Fincher.