Verboten! Bava d’Argento: DARK TOUCH di Marina de Van
REGIA: Marina de Van
SCENEGGIATURA: Marina de Van
CAST: Clare Barrett, Padraic Delaney, Robert Donnelly, Richard Dormer
NAZIONALITÀ: Francia, Irlanda, Svezia
ANNO: 2013
Che la nouvelle troullie sia oltremodo in debito con le filmografie di Mario Bava e Dario Argento è dato ormai assodato, ciò che invece continua a stupire, di certe produzioni d’oltralpe, sono le modalità attraverso le quali maestro e allievo del brivido all’italiana vengano non solo omaggiati, bensì ricollocati e riadattati; senza che il sincero rispetto fiacchi la personalità dei nuovi così da sfociare nell’esclusivo esercizio di stile.
Giunta alla terza prova dietro la macchina da presa, Marina de Van si conferma regista incline a un cinema psichiatrico, da mente disturbata e licenzia una pellicola che non ha nulla da invidiare ai nomi celebri della nuova onda francese, perfettamente in linea con le sue due precedenti opere: qui aggiornate a rimandi horror capaci, dai già citati Bava e Argento, di intraprendere percorsi narrativi tra Il villaggio dei dannati e la kinghiana Incendiaria. Se Dans ma peau rimestava in un autolesionismo inflitto di sospetta matrice cronenberghiana e Ve te retourne pas dichiarava tutta la sua infatuazione per Ozon, Dark Touch s’innesta tra i due facendosi fiaba nera come la sceneggiatura di Let petit pouchet lasciava ampiamente presagire: un limbo onirico, cupo, gotico ed emotivamente opprimente; dove l’Aja di Alta tensione rincorre i Julien Mary e Alexandre Bustillo di Livide, incrociando la strada del Faud Benhammou di Le villages des ombres. Insomma, la crema o quasi del new horror transalpino.
Marina de Van conquista d’impatto, liberando la possessione di oggetti e ambienti, trasformando in incubo omicida il diletto de La venere d’Ille senza dimenticare Suspiria, tanto che le case di Dark Touch ad altro non sembrano assomigliare se non ad una protesi seriale dell’accademia di danza di Friburgo. Ciò nonostante la semplice citazione non è contemplata: in Dark Touch c’è sostanza da vendere, che dagli abusi domestici spazia fino alla telecinesi, brucia bambole come in un video dei primissimi Korn e usa i mobili per uccidere. La struttura della sceneggiatura, come spesso accade da queste parti, è in omissis, eppure ben si lega con un finale tanto aperto quanto inquietante: epilogo ideale per un film emotivamente pesante come un macigno, ma capace di prenderti e non lasciarti più.