DARK WATER

REGIA: Walter Salles
CAST: Jennifer Connelly, John C. Reilly, Tim Roth
SCENEGGIATURA: Rafael Yglesias
ANNO: 2005


A cura di Elvezio Sciallis

OUT OF THE BLUE, INTO THE BLACK (WATER)

Era fin troppo facile prevedere crescente stanchezza e insofferenza sia nei confronti dell’ondata di ghost stories orientali sia rispetto agli infiniti adattamenti delle suddette messi in cantiere da Hollywood. Pubblico e critica cominciano a mostrare segni di allergia a ogni apparizione di vendicative bimbe-fantasma dai capelli lunghi e neri e francamente diventa sempre più difficile non unirsi al coro dei pareri negativi specie quando chi vi scrive aveva già vestito i panni della Cassandra in tempi ancora non sospetti. Sarebbe però un errore sparare a caso nel mucchio dei remake sicuri di cogliere nel segno e questo Dark Water è chiaro esempio di prodotto tutto sommato furbo e smaliziato in grado di interessare e intrigare quel tanto che basta da porlo sopra la media delle recenti pellicole horror.

Walter Salles, brasiliano per nulla solare e ridanciano, è a digiuno di horror ma non di orrore e sceglie di tradurre l’originale di Hideo Nakata puntando su alcuni concetti forti e sicuri: conscio di non avere mezzi e intenti necessari a rivoluzionare il genere decide di spostare ancora di più l’asse sul versante dello psicodramma asciugando lo script dei già scarsi “boo” e puntando su atmosfera e interpretazioni degli attori.

Ecco allora che i fantasmi nipponici scompaiono di scena per lasciare posto agli spettri della mente, ai dolori di un divorzio mal vissuto, dell’infanzia che torna a perseguitarci in eterno, all’insicurezza sulle proprie capacità, insicurezza che genera emicranie e paure paralizzanti in grado infine di levare il respiro come se ci si trovasse sott’acqua. Dovendo lavorare sui due elementi suddetti, il filmaker non risparmia mezzi e opportunità: ottima intuizione nella scelta degli esterni (una New York tetra e depressiva come raramente si è vista al cinema “grazie” allo squallore di Roosvelt Island), accurato lavoro negli interni da parte di scenografi e arredatori e un insolito Affonso Beato alla fotografia, pronto ad abbandonare la sua abituale palette di colori mediterranei in favore di scelte più fredde e scure.

Messa in cassaforte la costruzione dell’atmosfera, a Salles rimaneva da assicurarsi un gruppo di attori in grado di fornire prove superiori alla media del genere horror e sotto questo aspetto il film brilla di luce intensa con una Jennifer Connelly impeccabile nell’attraversare dolori e perdite, un Pete Postlethwaite inedito nel ruolo di portiere grezzo e meschino (il suono di quella cerniera dietro la porta chiusa riecheggerà a lungo nella testa di più di uno spettatore), Tim Roth ormai sempre più abituato a certi panni solitari e controllati e un John C. Reilly (nell’interpretazione migliore da molti anni) pressochè perfetto nel dar vita a un amministratore arruffone e imbroglione.

Combinate questi due elementi sulla trama ideata da Kôji Suzuki e Hideo Nakata e otterrete un film dall’andamento lento e fascinoso dove il malessere dell’anima conta assai di più di quello provocato dalle (scarsissime) apparizioni ectoplasmiche. Questo insieme il pregio e il limite di una pellicola che si riduce a uno studio accurato di ambienti esterni e interni, fra vaga (e banale) riflessione psico-sociologica (in un divorzio the winner takes it all, come cantavano gli Abba, alla moglie rimangono i cocci e non importa se i bimbi soffrono…) e seducente riflessione sulla potenza imbattibile delle esperienze traumatiche vissute durante l’infanzia.

Dark Water è pellicola assai superiore alla media delle uscite di questi mesi per quel che concerne il genere horror ma rimane l’impressione di aver assistito a un’ottima interpretazione di uno spartito risaputo da parte di una talentuosa orchestra.

Ci sarebbe da dire qualcosa anche sulla mutazione che sta attraversando il concetto di remake (fino a pochi anni fa erano immaginabili solo i rifacimenti di lungometraggi distanti almeno una ventina d’anni, ora ci si clona nel breve volgere di alcune stagioni) e sull’esigenza, da parte delle produzioni statunitensi, di “tradurre” per il pubblico occidentale pellicole (e nozioni) relativamente semplici come quelle proposte dalle recenti ghost stories orientali, quasi si pensasse al pubblico come a un gruppo di xenofobi incapaci di assimilare anche il più facile concetto estraneo alla propria cultura. Ma rinviamo queste riflessioni a tempi e sedi più consoni, sicuri che prima o poi Positif avrà qualcosa da dire al riguardo.

(19/10/05)

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