DARK WATER
REGIA: Hideo Nakata
CAST: Hitomi Kuroki, Rio Kanno, Mirei Oguchi
SCENEGGIATURA: Hideo Nakata,
Takashige Ichise
ANNO: 2002
A cura di Pierre Hombrebueno
DILUVIO UNIVERSALE D’ACQUA ORRORIFICA
A discapito di remake et affini (Walter Salles alzati e levati immediatamente), Dark Water di Hideo Nakata è senz’altro
uno dei migliori horror degl’ultimi anni, imperdibile (e imprendibile) perché fantasmagorico come il
suo plot, tra l’esistenzialistico e tocchi di commovente enfasi e
maestria.
Dopo aver (ri)lanciato la moda dei fantasmi
giapponesi in Asia e in occidente con Ringu (la fatidica bambina con i capelli lunghissimi
impiastricciati d’acqua e gl’occhi storti
è opera sua), Nakata si concede una dimensione più
intima e intimistica affrontando i drammi di 2
protagoniste, madre e figlia appena trasferitosi in una casa nuova dove dal
soffitto umido continua a gocciolare acqua giorno e notte e dove il fantasma di
una bambina dal cappotto giallo appare e scompare.
Innanzitutto, Nakata introduce immediatamente una
dimensione psicologica all’irrazionale: la madre, in passato, ha avuto
incontri psichiatrici per problemi con le violenze mentali.
Non sappiamo (o perlomeno, concediamo il beneficio del dubbio), perciò, se le
sue visioni fantasmagoriche siano effettivamente un
qualcosa di soprannaturale o solamente le conseguenze deliriche
di una mente che ha bisogno d’aiuto. Nakata ci intrufola nel subconscio della protagonista (ora sappiamo
definitivamente perché la new wave d’horror
asiatica è denominata anche “horror psicologico”), donna appena
divorziata con lo stress di dover cambiare casa e crescere una figlia tutta da
sola.
Il corpo attoriale, dunque, al contrario degl’horror occidentali, non è solamente un corpo da
macello; è questa la prima grande differenza ideologica tra l’orrore
stampato U.S.A e l’orrore stampato Asia: se in
occidente l’attore non conta assolutamente nulla (sono pochissimi per
esempio, i film horror con visi famosi) in quanto è corpo da macello per il
sadico mostro o assassino di turno, in oriente il corpo non è solo fisicità materica, ma anche e soprattutto mente e psiche, speranza e
delusione, forza e debolezza, tendenza e controtendenza.
In questo senso, avere un approccio affettivo con i protagonisti di Dark Water
diventa un procedimento fluido, in quanto sono
personaggi a 360°, se poi ci aggiungiamo una direzione attoriale
capace di cogliere nel viso di Hitomi Kuroki quel mix di fragilità-instabilità-forza-dramma,
farsi prendere emotivamente dalle vicende narrate diventa automatico e giusto.
Nakata abolisce poi ogni virtuosismo registico, optando invece per una tecnica classicista con
leggeri movimenti di macchina e tanti piani curatissimi nella loro sobrietà e
gestione spaziale. Ogni linea del quadro è in effetti
volutamente ristretta, come se volessero rinchiudere la protagonista tra
quattro muri, in una specie di cubo claustrofobico
che arriva indirettamente a rappresentare la mente stessa della donna, braccata
da multi-dimensioni, da fasci di luce e ombre oscure.
In fondo, Dark Water non è che un Cinema di specchi, di sovrimpressioni celate
tra il vero e il falso, il percettibile e l’impercettibile, come
un’illusione che può essere mortale; non è un caso se il simbolo del film
è l’acqua, che oltre ad essere una fissa fobica di diversi autori
giapponesi, è anche in fondo uno specchio trasparente dove riflette una
versione deformata del proprio io (inconscio), ed entrandoci senza saper
nuotare, è facile annegare e morire .
Quindi, la fattura visiva di Dark Water vive
d’opposti complementari: da una parte abbiamo l’atmosfera tinta di
sporcizia (grazie anche alla fotografia di Junichiro Hayashi, che punta sui toni scuri del grigiastro),
dall’altra, il simbolo della pulizia e dell’igiene, ovvero
l’acqua. Ma in fondo il titolo ce l’aveva
detto: Acqua oscura, quindi la purezza che si tinge di sporco e di lurido, come
un’epidemia cancerogena virus letale. In Dark Water, subentra il veleno (l’odio,
il rancore, la ricerca di una consolazione) che infetta le due dimensioni del
racconto (il visivo e il non-visivo) suscitando una trascendenza percettiva
nello spettatore stimolato dei suoi (sesti)sensi viscidi e viscerali, inquinati
e inquinanti.
Arriviamo dunque all’epilogo. Nessuna goccia di sangue è stata versata e
nessuna ne verrà versata. A travolgere i personaggi è
tanta acqua, come una massa di pioggia universale distruttore e creatore nello
stesso tempo. Gli specchi si confondono e si sovrappongono in un diluvio di
dramma e paura.
L’atto finale diventa simbolo d’amore. Ma anche di comprensione e di altruismo. E noi, impotenti e trascinati in questa
vortice emotiva, osserviamo col cuore in mano quegl’ultimi sguardi sofferti e sofferenti
filtrati dal vetro di un’ascensore.
Esattamente tra il nulla e l’addio.
(07/01/06)