DAVID CRONENBERG – I corpi violen(ta)ti
DALLA PORNO IPODERMIA AL SESSO DELLO STRATO: UNA QUESTIONE DI MORALITÀ
C’era una volta un Cronenberg diverso, cineasta capace di applicare la macchina da presa come una sonda medica: venite, guardate, rivoltatevi lo stomaco! Questi siamo noi, non è una meraviglia? Ora non più, come se l’attenzione del canadese si fosse dislocata dall’interno all’esterno dei corpi, angolandosi verso prospettive di superficie, quasi intendesse, dopo averne studiato l’armonia naturale delle profondità nascoste, analizzarne le cause rappresentative che da sotto la pelle si riflettono sopra e oltre questa: History of violence, La promessa dell’assassino e A dangerous method definiscono la raffigurazione schermica di questa “mutazione”. Porre il potenziale orrore del corpo dentro il corpo, era, per il Cronenberg primigenio, istinto quasi essenziale: propensione che a braccetto viaggiava con la differenziata raccolta filmica di strumenti medici e nozioni psicologiche sparse, triangolo basilare affinché l’epoca della nuova carne potesse definirsi effettivamente realtà cinefila. Quel Cronenberg sembra non esserci più, come fosse a godersi il meritato riposo all’interno di un baccello di “siegeliana” memoria: al suo posto l’avatar adulto del medesimo regista, che alle letture di Ballard (Condominium e Crash) e Burroughs (Il pasto nudo) antepone quella di Wagner e Locke (History of violence), non rinunciando però a John Kerr (A Dangerous Method), senza per questo perdere l’occasione di dirigere il suo primo noir (La promessa dell’assassino). Il cinema dell’ultimo Cronenberg continua ad occuparsi della sessualità violenta dei suoi corpi, ma dall’esterno, non più violandone le concavità: osservandone le movenze selvagge tramite la reciproca interazione con i simili, tornando alle origini del proprio pensiero esclusivamente per studiarne le connessioni e le derive morali. Step necessario quest’ultimo, quando dall’alienazione di un singolo o di un gruppo, si decide di spostare l’attenzione verso dinamiche sociali e familiari. Qualunque sia la tipologia del focolare attenzionato.
EFFETTO MORTENSEN, PARTE 1: HISTORY OF VIOLENCE
Sono scampato solo io che ti racconto questo
Giobbe
La (nuova) nuova carne ha un duplice volto: tecnico e sessuale. History of violence rade al suolo qualsivoglia aspettativa e preconcetto sul Cronenberg dietro la macchina da presa, mai così stilizzato e sornione nel rapportarsi con l’obiettivo che, placido, come un cecchino in attesa del bersaglio, attende il giusto momento per scatenare la tempesta. Cronenberg si libera dell’asetticismo d’interni, a metà tra il medico e il laboratorio che spesso l’aveva caratterizzato, sostituendolo con una fotografia altrettanto essenziale ma decisamente più solare: modalità per insinuare una calma apparente, ad un passo dall’incrinarsi. Prima il silenzio, poi il fragore. Nel regno di Canada viene proclamato un nuovo re: Viggo Mortensen, sul corpo del quale Cronenberg pianifica il crash test del suo (nuovo) cinema che verrà. Mortensen penetra la graphic novel stravolgendone l’immaginario bolso e occhialuto, al fine di sostituirlo con un represso fascio di muscoli e nervi: i primi pronti a guizzare sulla spinta dei secondi. Al resto provvede il fine morale perseguito dal regista, deciso a rivelare il condotto che dal sesso porta alla violenza esteriore. Il (nuovo) parassita “cronenberghiano” si chiama rabbia: cieca e schiumante. Nel corpo umano vi risiede dai tempi dell’ingresso ginecologico e alieno mostrato ne Il demone sotto la pelle, in quello di Mortensen vi è rimasta, addormentata ma con un occhio vigile, dai tempi della fuga newyorkese. Ne consegue che il sesso assuma, in History of violence, sembianze diverse da quelle parassita di Rabid, “snuff” di Videodrome, animal-mutante di La mosca, dipinte e “alterate” di M.Butterfly, erotico-meccaniche di Crash, video-ludiche di Existenz o matronescamente masturbate di Spider; una rabbiosa bramosia pronta a manifestarsi nella quiete domestica, e tramite i suoi preliminari adolescenziali, e attraverso derive che lambiscono lo stupro. Quindi violenza, la stessa che da ipodermica e celata muta in strato nudo, imperlata di sudore e sangue, dei cui riflessi si fa vanto brillante, una volta in contro luce. Automatiche fumanti, lotta di strada, doppiette che tuonano, ossa in frantumi e bende sporche in bella vista. Calma, tempesta e poi di nuovo calma. Eppure il virus della violenza, tramite il sesso, ha varcato i confini: contagiando l’intera famiglia, che silenziosa cena in cucina. Senza più alcun segreto da nascondere.
EFFETTO MORTENSEN, PARTE 2: LA PROMESSA DELL’ASSASSINO
Re inchiostro se ne va in giro per la città
fiutando intorno
Nick Cave, King Ink
On violence nella corteccia celebrale, La promessa dell’assassino rappresenta la naturale protesi visiva e corporea di quanto allestito da Cronenberg dopo aver messo mani su Wagner e Locke. Mortensen consolida la leadership conquistata nel regno del canadese spogliandosi di quanto dovuto giocoforza indossare in apertura di History of violence: il percorso di emancipazione violenta rispetto agli imposti parametri sociali è definitivamente compiuto, libero di mostrare la ferocia che epidermicamente trasmette, Mortensen sfoggia orgoglioso i suoi tatuaggi, tappe di un percorso di vita delinquenziale che, al tempo stesso, è evoluzione (dal) e regressione al naturale stato di cattività animale contemplato da Cronenberg. Caratterizzazione alla mano, Nikolai Luzhin altro non è che il vecchio Joey Cusack, liberatosi in apparenza della fittizia identità riconducibile a Tom Stall, proprio per questo deciso a ripercorrerne le orme: un uomo diverso con indosso il suo vecchio vestito, non più responsabile del feedback attorno ad un tavolo da cucina, bensì in dovere di rispondere solo alla sua nuova (o vecchia?) “famiglia”, che da sociale ritorna malavitosa; raggirando infine anch’essa, nel nome dell’FSB. La stilizzazione tecnica introdotta con History of violence si fa verbo, urgenza, necessità: Cronenberg gioca con il noir, con i suoi codici, con le presunte visioni d’ispirazione (Piccoli affari sporchi), attraversa il genere con indole né più né meno simile a quella adottata per la graphic novel che motivava la sua precedente fatica; così facendo stringe un patto d’acciaio con lo spettatore, che ora accetta e si aspetta, dopo History of violence, sequenze chiave come quella della rissa nella sauna; liberazione, elevazione al cubo e catarsi di quanto accennato durante la trasposizione di Wagner e Locke. Cronenberg torna a misurarsi con l’autoimposto sdoppiamento di personalità, posizionando il suo interprete principale nell’unico contesto all’interno del quale sembra respirare a pieni polmoni, essere se stesso: la lotta, la gabbia, i colpi da sferrare e da incassare, nudi, crudi, senza protezione e pietà alcuna. Vittoria o sconfitta poco importa, ciò che conta è esprimere quanto la pelle, a sua volta violentata dall’inchiostro, rimanda al cervello: fiotti di sangue, denti spezzati, ferite e cicatrici come morsi divini. Nikolai Luzhin ritorna Joey Cusack nascondendo al mondo il Tom Stall che è in lui, al fine di esprimere il suo vero lato: selvaggio, ingannevole, spietato. Del sesso, ovvero del buon conduttore di aggressività, non ha più bisogno, ecco perché può permettersi di rinunciare a Anna Khitrova. Uomo nuovo. Libero. Schiavo solo del suo doppio.
CORPI COME CALAMITE: A DANGEROUS METHOD
I baci di Kathy, semplicemente accadono
la sua bocca sul pavimento, tira su la polvere
li spazzo sotto la porta
Nick Cave, Kathy’s Kisses
Accolto con sorpresa e guardato con circospezione, A Dangerous Method completa il cerchio dell’ultimo Cronenberg con mano ferma e tratto continuativo. Aspettando Cosmopolis e il pilot di Knifeman nulla si chiude, in quanto non vi è interruzione nella congiunzione di punti. Cronenberg riprende da dove aveva (in parte) lasciato. Dai naufragi di Spider. Lì deve essere rintracciato l’humus di A Dangerous Method: Carl Jung, Sigmund Freud, Sabina Spielrein e John Kerr. A Dangerous Method è Cronenberg trasversale, parte da Spider per evolvere l’ansimare desideroso e dispotico di History of violence, infine torna ai nascondigli sessuali di M Butterfly. La questione morale, introdotta rileggendo Wagner e Locke, e successivamente utilizzata come cavillo di trama ne La promessa dell’assassino, trova in A Dangerous Method la sua naturale implosione: dall’ingordigia di possessione, prima richiesta e poi subita, si passa al livello successivo di dolore e prepotenza mista a piacere; ovvero la sottomissione implorata da Sabina Spielrein. Desiderio, violenza, catarsi. Il cinema di David Cronenberg torna a flirtare con la psiche umana senza abbandonare le assi rappresentative della sua recente mutazione, invero le rende più luccicanti, evidenziate nel resoconto di fatti che sanno di non ritorno. Tra le righe intanto, cova l’interrogativo che agitava la cena della famiglia Cusack/Stall e il rapporto Luzhin-Khitrova: giusto o sbagliato? Dentro o fuori il limite del consentito? Carl Jung e Sabina Spielrein, medico e paziente, fustigatore e amante, liberatore e repressa. Ciò che da sotto la pelle preme, in parte ne travalica i confini epidermici, lasciandovi di rimbalzo i freschi lividi delle scudisciate, dall’altra di parte, vi resta invece ugualmente sottomessa, ma con difforme manifestazione. A fare la differenza è il terzo elemento, Sigmund Freud, che altera la diade convertendola in triangolo. Ancora una volta è Mortensen l’ago della bilancia, ora castigato in un corpo che non è (più) il suo, rigido, ligio, sessualmente inibito: punto di riferimento di quel Jung che, da suo allievo, si trasformerà, per la paziente-uditrice Spielrein, in maestro-violento-concubino. La parabola Mortensen delinea il cerchio che chiudendosi (dopo History of violence e La promessa dell’assassino), si riapre in A Dangerous Method: custode di una pulsione/mutazione (omo)sessuale che da assiomatica preferisce rimanere sotterranea. Dentro e fuori il cambiamento, pronta insomma, ad affermarsi attraverso altre rappresentazioni. Qualunque cosa sia, in attesa anch’essa di Cosmopolis.