THE
DEPARTED
REGIA: Martin Scorsese
CAST: Leonardo Di Caprio, Matt Damon, Jack Nicholson, Martin Sheen, Mark
Wahlberg
SCENEGGIATURA: William Monahan
ANNO: 2006
A cura di Luca Lombardini
ROMA 06': HONG
KONG/BOSTON - SOLO ANDATA
Doveva essere il film in grado di scindere in due parti la Festa del cinema,
quello che a posteriori avrebbe dovuto far pensare a due epoche conviventi
all’interno di questa prima edizione: quella pre
e post The Departed;
ma se possibile, l’ultimo lavoro di Martin Scorsese, è riuscito nell’impresa
di andare ben oltre le già rosee aspettative che lo
hanno preceduto in quel di Roma.
Ufficialmente remake a stelle e strisce di Infernal Affairs, The Departed
si pone come rilettura e rielaborazione dell’intera trilogia ideata e
firmata da Andrew Lau e Alan Mak, cult hongkongese post-Handover, in
grado di sbancare persino i botteghini della Repubblica Popolare Cinese.
“I dipartiti” del titolo, altro non sono
che i defunti e i fantasmi che popolano questa avvincente storia di spie,
infiltrati e corruzione, che risolleva le quotazioni di uno dei quattro o
cinque cineasti di maggior rilievo del nostro tempo, da qualche anno ritenuto
un po’ da tutti non proprio in formissima,
visto l’algido The Aviator e il
griffithiano ma discontinuo Gangs of New York.
Con The Departed
invece, Marty si riappropria di tutta la
considerazione che merita, dirigendo una pellicola viva, sentita e pulsante,
che non fa prigionieri e va dritta per la sua strada, senza un nano secondo di
cedimento nonostante i suoi 151 minuti di durata.
Quello ideato dall’autore, è un getto ipnotico fatto di
emozioni e colpi di scena, che centrifuga le cognizioni di spazio e
tempo con piglio bergsoniano, abbattendo qualsiasi
tipo di barriera divisoria tra presente, passato e futuro, espedienti messi al
servizio di una forza narrante centripeta, che non conosce soluzione di
continuità tra gli estremi.
Dai grattacieli di Hong Kong, la vicenda si sposta tra gli slum di Boston, dove
a farla da padrone non sono le triadi, bensì i malavitosi di origine
irlandese, ma di adozione americana. Quella che a prima vista potrebbe apparire
come una delle più grandi rivoluzioni geografiche dell’intera filmografia
scorsesiana, si scopre essere ben presto cordone
ombelicale che lega The Departed ad alcuni capisaldi dell’opera omnia del
regista. Proprio tra i bassifondi della nota metropoli del Massachussets infatti, riecheggiano i rimandi a Mean Streets e GoodFellas: perché se formalmente
The Departed
è il film di Scorsese
che più di ogni altro suggerisce legami di parentela cromatica con Casinò, quando si assiste ad una
sequenza come quella dell’incontro tra il già potente Nicholson e l’ancora
adolescente Damon,
risulta impossibile non mettere in parallelo l’educazione criminale di quest’ultimo, con quella che proiettò
nell’olimpo della malavita il Ray Liotta di Quei
bravi ragazzi.
Ma oltre che di regia, The Departed è un film che deve molto alla stesura meticolosa
della sua sceneggiatura (lo stesso Scorsese in conferenza stampa, ha ammesso di essersi
innamorato del progetto, del quale inizialmente non era tanto convinto, dopo
averne letto la trasposizione scritta), firmata dalla penna di William Monahan,
che rivede il plot del primo episodio targato Lau e Mak, rielaborandone segni e simboli
narrativi riconoscibili (il gesso rotto sul tavolo, il trucco del finto
avvocato, la busta contrassegnata da una correzione, che rivela la vera
identità della talpa all’interno del distretto di polizia) successivamente miscelati a momenti provenienti dal prequel e dal sequel
dell’originale (la “gavetta” carceraria di Di Caprio
e la figura quasi centrale della psicoterapeuta, arrivano rispettivamente da Infernal Affairs II e III).
C’è da scommettere inoltre, che da buon irlandese, Monahan abbia avuto il suo peso
sia nella scelta dell’ambientazione, sia nel vaglio di alcuni innesti
all’interno della colonna sonora, sospetto che diviene qualche cosa di
più quando si ascoltano i Dropkick Murphis sottolineare, con il loro melodico incedere
hardcore, i tempi maggiormente action della messa in scena.
Sceneggiatura e soprattutto regia, che si avvalgono
del prezioso e determinante contributo in fase di montaggio di Thelma Schoonmaker
(Toro scatenato e The Aviator), abilissima nell’assecondare tanto i momenti
nervosi quanto le pause psichiche dell’intreccio.
A corollario di ciò, un cast che fa strabuzzare gli occhi per intensità e
trasporto: dove la rockstar Nicholson, si confà alla
perfezione al ruolo del mattatore assoluto, stravolgendo totalmente la maschera
quasi crepuscolare che fu di Eric Tsang, mentre Leonardo Di Caprio e Matt Damon, escono a testa alta da quello che
sulla carta sembrava un impari confronto con Tony Leung e Andy Lau. Alle loro spalle un esercito di
“caratteristi” encomiabili come Martin Sheen e Vera Farmiga, dove il primo non fa mai
rimpiangere Anthony Wong, mentre
la seconda regala spessore e centralità ad un figura
di donna nettamente più considerata rispetto all’originale, pur dovendo
fare i conti con l’incastro di ben due personaggi femminili provenienti
dal primo Infernal Affairs.
Come detto poc’anzi, ne
vien fuori un film immenso, privo di qualsivoglia
difetto, che ricolloca Scorsese al fianco di Mann e Malick, sul podio virtuale dei
maggiori autori americani. Un regista che torna finalmente a
liberare il suo personalissimo e inimitabile stile di racconto, ora però, in
grado di valorizzare il suo riconosciuto tocco tragico, attraverso
l’esposizione di una vicenda fatta di doppi freudiani.
Come dicono gli inglesi, a Masterpiece.
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