IL DIAVOLO VESTE PRADA

REGIA: David Frankfel
CAST: Meryl Streep, Anne Hathaway, Stanley Tucci
SCENEGGIATURA: Aline McKenna
ANNO: 2006


A cura di Pierre Hombrebueno

SYMPATHY FOR THE DEVIL

Il primo riferimento di quest’opera di David Frankfel è la vita. O meglio ancora, la scelta di prendere una strada per inseguire sé stesso e la propria ombra. Il labirinto del mondo e del futuro, la grandezza di varietà e di sfumature che possiamo assumere, battere, indicare, o rifiutare.
E lo vediamo in una delle primissime scene, dove la protagonista Andy scruta il grattacielo newyorkese in cui lavorerà: Frankfel, in (quasi) contre-plongè, massifica al massimo la potenza e la vastità di questo edificio nei confronti dell’essere umano rappresentato dalla piccola Andy, schiacciata dal gigante come una formica. Dunque, la piccolezza dell’uomo davanti alla vita e davanti al mondo, e proprio per questa differenza scalare, la persona è necessariamente sepolta e re-inventata, il proprio corpo si mette in gioco per il momento decisivo dell’esistenza, quello dove si sceglie cosa portarsi appresso nel futuro e cosa lasciare indietro nel passato.

Ancora una volta la vita si riflette nel Cinema. Non solo, e questo accade raramente, si riflette addirittura nel Cinema Comico, quel genere nato teoricamente apposta per trasfigurare al massimo la vita, superarla per far sognare il pubblico in grande. Certo, ne Il diavolo veste prada si sogna, ma in piccolo, perché più che raccontare visioni, narra semplicemente la vita che ogni persona deve affrontare, seppur col verve di comicità esilarante (merito anche della sceneggiatrice Aline McKenna), gestito magnificamente dal ritmo dinamico e dall’uso frequente di montaggi-alternati per mostrare le due sponde della linea, quella di Miranda Priestly, Dea Suprema della Moda, e dei suoi collaboratori. Un esempio è la scorrevolezza e la scioltezza in cui vediamo Miranda la prima volta: pochi dettagli, come i suoi piedi che escono fuori dalla macchina, alternati alle varie segretarie/sottosegretarie/sottosottosegretarie mentre preparano con agitazione e meticoloso ordine l’arrivo del Boss. Irrimediabilmente, Frankfel crea subito un clima(x) d’attesa per vedere finalmente in azione questa figura tanto temuta (e ammirata) che addirittura viene chiamata “Diavolo” dal titolo; ed eccola lì, col volto di Meryl Streep in pieno atteggiamento glamour e “melatiroammanetta”, (ac)curata in ogni minimo movimento, alzando lievemente un sopracciglio o facendo leggermente vibrare le labbra. Capiamo immediatamente di essere entrati in campo-metacinematografico, perché tutte quelle dipendenti sono seriamente delle nullità attoriali in confronto alla Dea Meryl Streep, il capo, il diavolo, l’attrice che oggi, più che mai, meriterebbe di sedersi nella scrivania superiore per guardare tutti dall’alto e criticarli.

E man mano che procediamo con la narrazione, ci addentriamo in quella facciata meta-cinematografica che fu proprio di Eva contro Eva, il mondo dello spettacolo (e del business in generale) che si riflette nell’industria Hollywoodiana. Ecco quindi Miranda Priestly che fa quasi la fine di Bette Davis, o perché no, della figura mitica di Gloria Swanson in Viale del tramonto, e quindi la riflessione obbligata sulla carriera di un’artista in riferimento alle leggi (durissime) del mercato. Via i vecchi per far spazio ai nuovi. Niente amicizie o legami sentimentali all’interno del gioco, perché in questo campo bisogna unicamente pensare a sé stessi per mantenere la propria poltrona e la propria autorità.
E’ essenziale (e bellissimo) in questo senso, la scelta di mostrare anche il lato più umano del “Diavolo”, in quella scena intimissima di lei finalmente catturata senza abiti vistosi e senza trucco, in un momento di crisi per l’ennesimo divorzio: Dio, anche solo per pochi istanti, ha deciso di scendere sulla terra per assumere le sembianze dell’uomo. Pochi attimi che per un momento sembrerebbero direzionare il film nel solito buonismo incondizionato, in un nuovo “favoloso mondo di Ameliè”, ma fortunatamente Frankfel rimane coerente con la strada che intende portare a termine, esplicitando ancora più chiaramente il significato ultimo del film: in fondo, non c’è il bene o il male, differenza tra etica o immoralità, ognuno deve solamente scegliere la propria strada e proseguirla. Ancora una volta, una riflessione nata dal Cinema, più in particolare nell’essere “Autore” oggi, dove non importa più tanto l’etica, ma semplicemente la coerenza con cui si porta avanti il proprio dogma d’artista, e in quanto dogma, inviolabile e personale, intimo. I personaggi de Il diavolo veste Prada, in verità, non assumono un’evoluzione, ma il tutto è semplicemente un cerchio che si apre e si chiude con gli stessi specchi.

Ecco dunque il finale, puro pathos di quegli sguardi che s’incrociano: Il Diavolo ci regala ancora un pezzo di Storia del Cinema e Storia della Recitazione, ci guarda con strafottenza e superiorità per l’ultima volta, ci trapassa con quel carisma unico ed imprescindibile. Ed è Standing Ovation.

 

(14/10/06)

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