DISTURBIA
REGIA: D.J Caruso
SCENEGGIATURA: Christopher B.Landon,
Carl Ellsworth
CAST: Shia LaBeouf, Sarah Roemer, David Morse
ANNO: 2007
A cura di Marco Compiani
DISTURBIA, MA NON TROPPO
Pare più che ovvio, in primis, sottolineare
l’atroce bestemmia che ha contrassegnato le pseudo-critiche
e i dubitabili parallelismi aprioristici su Disturbia, poiché di “hitchcockiano” non c’è proprio nulla. Possiamo
concordare sul fatto che La Finestra sul
cortile abbia suggestionato l’idea di base dello script, ma
abbandoniamo assolutamente questi semplicismi ridicoli che hanno la sola
funzione di riempire alcune pagine web o di evocare una qualche (apparente)
cultura cinefila. L’aspetto propriamente metacinematografico della visione infatti
è in realtà più discorsivo che riflessivo, acquistando complessivamente una
valenza ritmico-narrativa nella quale il pensiero
critico rimane misero e mal sviluppato, per non dire assente, se non riferito
alla scontata polemica pedagogica sull’appiattimento mentale e pratico
generato dalla tecnologia multimediale.
Lo so, non possiamo chiedere chissà quale risvolto
culturale ad un film che si mantiene in piedi solo nell’impegno di
funzionare come un pop-corn per teenager, sempre “vivo” se
catalogato in immaginari come il thriller o l’horror movie. La parentesi
educativa però non manca e gli arresti domiciliari del giovane Kale (Shia LaBeouf) divengono un punto di partenza per sollecitare
una gioventù lobotomizzata da una miriade di input deformativi (Tv, internet, chatting,
X-Box e via dicendo), alla quale ovviamente (almeno per D.J. Caruso) basta far vedere come un binocolo possa essere
l’ariete che abbatte il muro dell’alienazione individuale dalla
realtà e che apre lo sguardo verso una comprensione (?) del Mondo che ci
circonda (ma per piacere!!), con tanto di possibile redenzione e accettazione
sociale come eroe. Il Medium in quanto tale, che sia
un cellulare ultimo modello o una videocamera a circuito chiuso improvvisata,
sembra più un volantino pubblicitario di Mediaworld e
si limita a fungere solo come lo strumento per svelare il mistero del vicino di
casa, perdendo così qualunque pretesa di riflessione sullo sguardo. La
percezione infatti è piuttosto apatica e fila dritta
in un pathos mollaccione, certo del più ovvio finale.
Ecco così il difetto macroscopico del film, ovvero
quella incapacità di rendere credibile un’operazione che di spunti di
partenza ne aveva ma non riesce per nulla a decollare. Paradossalmente a quanto
voluto, è incomprensibile il perché dello riempire la
pellicola di siparietti da ragazzi cazzoncelli che
sebbene abbiano la finalità di rendere rinfrescante e briosa la fruizione,
negano ogni evoluzione al protagonista e alla storia, debole anche nel suo
cardinale intento di suscitare ambiguità e possibili colpi di scena (a parte i
più che codificati). Inoltre il ritratto adolescenziale spensierato e sognante,
fatto di cotte amorose e camere da letto tappezzate da poster rock-punkettari, è fine a se stesso, privo di quelle
problematiche che segnano ogni giovane. Non è richiesto uno sviluppo di queste,
ma se l’intro gioca sulla perdita della figura
paterna, perlomeno sarebbe stato onesto stimolare maggiormente questo aspetto e non utilizzarlo come pretesto per fare un
occhio nero al professore di spagnolo e per giustificare il contesto
dell’opera.
Ci rimane negli occhi l’intento della visione voyeuristica,
che invece di affermarsi, rimane unicamente un gioco investigativo, che limita
il proprio apporto formativo e conoscitivo esclusivamente nel conquistare la
donzella vicina di casa, con una dichiarazione da Dawson’s Creek.
(13/09/07)