IL DIVO

REGIA: Paolo Sorrentino
SCENEGGIATURA: Paolo Sorrentino
CAST: Toni Servillo, Anna Bonaiuto, Piera Degli Esposti
ANNO
: 2008


A cura di Tommaso Barbetta

ANDREOTTI-DIVO-POP-ANNI80’

Francamente trovo poco interessante parlare de Il Divo come film politico. E non certo perché la riflessione a cui approda non sia condivisibile. Credo infatti che analizzare esclusivamente i messaggi politici in esso contenuti, come molti hanno fatto, sminuisca il lavoro di Sorrentino. Se da una parte è evidente l’impianto critico che muove l’opera, atto a toccare e mettere in mostra molte di quelle che erano le contraddizioni interne alla DC e legate alla figura politica di Giulio Andreotti, è altresì importante capire che il film vuole parlare di una persona, prima ancora che di un politico. E’ bene distinguere che parlare di politici significa parlare di figure di rilevanza pubblica e delle loro azioni, mentre parlare di persone significa svolgere una ricerca all’interno di un essere umano, nelle sue ideologie, nel suo pensiero e nei suoi problemi. In questi termini Fahrenheit 9/11 è un film politico, Viva Zapatero è un film politico, ma non Il Divo.
L’opera di Sorrentino non vuole semplicemente mostrare cosa è successo negli ultimi 40 anni della storia italiana, ma perché è successo e soprattutto chi è l’uomo dietro a tutto ciò. Più che machiavelliano, Il Divo è un film che si avvicina alle idee di Guicciardini mostrando, e in parte anche inventando, la spettacolare figura di Andreotti. Si potrebbe perfino pensare che al regista, in realtà, di raccontare e mettere in luce i dilemmi della storia politica italiana gliene importasse ben poco: parlare di politica era solo necessario per contestualizzare e comprendere meglio l’operazione. Come ne L’amico di famiglia, l’attrazione per il personaggio è maggiore dell’intento critico. Chi esce dalla sala provando immediato disprezzo verso il protagonista dimostra di essere troppo legato a rapportare i film alla realtà, a confonderli con essa; motivo per cui probabilmente non è stato in grado di cogliere in pieno il senso dell’opera. Perché se è vero che il Divo è presentato come una figura ambigua, inafferrabile e indecifrabile, allora bisogna prendere atto di quanto il regista è riuscito a dimostrare: l’impossibilità di giudicare le persone da un solo punto di vista e l’impossibilità di comprenderne in pieno le azioni. Come già per i precedenti personaggi portati in scena da Sorrentino, si è portati a provare compassione ed empatia, non odio.
Una volta le Brigate Rosse gli telefonarono in casa e gli dissero che l’avrebbero rapito il 26 Dicembre. “Almeno posso passare in pace il Natale”, rispose loro Giulio. Proprio come il protagonista, l’autore cosparge l’opera d’ironia e umorismo grottesco: ad esempio la scena in cui viene presentata la corrente andreottiana, dove la cinepresa si muove come in un western, e il gruppo viene ripreso camminare in giacca e cravatta con lo stesso passo dei protagonisti di Reservoir dogs; l’incipit che strizza l’occhio ai film polizieschi degl’anni settanta; Andreotti che strappa l’ultima pagina di un giallo perché “stava per rivelare l’assassino”.
Sempre enorme il lavoro sulla forma: Sorrentino è forse l’unico regista italiano contemporaneo a svolgere una minuziosa ricerca dei dettagli (si pensi all’attenzione dedicata alle mani del protagonista), della composizione barocca nelle inquadrature, dell’uso ritmico nella musica. Anche per questo Il Divo non è e non può essere un film politico, tantochè Sean Penn, che a Cannes gli ha attribuito il Premio della Giuria, lo definisce addirittura un’opera pop.. e come dargli torto? Ancora una volta Sorrentino riesce a coniugare ricerca cinematografica e ricerca umanista, forma e contenuto, estetica e significazione; Il Divo, che parte dal peccato per arrivare al peccatore, scava oltre la superficie e sprofonda dietro la maschera in cui si cela il protagonista: l’ironia tanto cara al Divo Giulio in realtà non è che un ambiguo guscio, dentro cui vive una persona per molti incomprensibile. Una persona che si sente sola. O forse no? Che anche questa recensione in realtà sia lo scherzo ironico di un uomo incomprensibile? Forse siamo tutti soli, tutti incomprensibili, tutti in giudicabili. Vogliamo sempre fare del bene, ma nel frattempo facciamo del male e non ce ne rendiamo nemmeno conto. Perché siamo ciechi. E quando iniziamo a comprendere i nostri sbagli, per nasconderci ci mascheriamo, come Giulio.
E allora, quando i nostri errori saranno così grandi da coinvolgere una nazione intera, dovremo solo aspettare che qualche regista si accorga noi.

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