DOWN IN THE VALLEY

REGIA: David Jacobson
CAST: Edward Norton, Evan Rachel Wood, David Morse
SCENEGGIATURA: David Jacobson
ANNO: 2005


A cura di Davide Ticchi

UNA STORIA DA MARCIAPIEDE

C’è una scena nel segmento conclusivo di Down in the Valley che è post-crepuscolare, romantica, nostalgica, ed infinitamente onirica, apparentemente senza tempo, d’altri tempi in effetti. Harlan è il protagonista combattuto di questo spaccato color porpora di due epoche che non possono più combaciare, neanche tra i loro personaggi distintivi che vagano oltre le aree sconfinate della San Fernando Valley. Ebbene questo “ultimo dei cowboy” viene svegliato dal suono di una musica, mentre dorme nell’edificio in legno che lo ha ospitato per la notte insieme al piccolo Lonnie, un ragazzino di tredici anni che lo ha seguito come un figlio affezionato fin lì, in questa casa fantasma raggiunta nel buio lugubre della notte. Ora è importante tener presente un altro aspetto di questo rifugio, perché tale lo si può definire, visto che i due lo raggiungono durante una fuga a cavallo, come in una galoppata ovattata dal freddo e dal silenzio notturni, verso il primo villaggio con saloon disposto a nascondere una strana coppia di latitanti come questa. La fuga è offuscata dalle brune ore notturne, certo, ma l’affanno e la stanchezza per i due avventurieri sono pressanti tanto da fargli meritare quelle ore di sonno cui non sapremo più se succederà il piano della realtà o quello del sogno, almeno per qualche istante. Harlan è ora fermo davanti alle scale in legno appena discese, di fronte a sé ha quella che potremmo definire la materializzazione del sogno/realtà che abbiamo appena immaginato, quello del villaggio western abitato da uomini in abito con orologio al paltò e donne in vestito lungo riempito dalle frange di seta e dai reggipetto strettissimi, con intorno tutte quelle costruzioni dall’architettura tipicamente rialzata, per far posto ai “posteggi” per cavalli e aumentare l’ampiezza dello stradone, luogo abituale dei mezzogiorno di fuoco. Harlan è lì davanti, fisso e incredulo come noi spettatori di un film fino a poco prima debitore della realtà contemporanea, delle sue problematiche relazionali, sociali, psicologiche e sentimentali; ma per qualche istante ciò sembra essere solo un ricordo, un piacevole scorrere di minuti teso verso qualcosa di eterno come la magia del cinema stessa. Una piattaforma lignea riveste il pavimento di terra e polvere sollevata dai passi della gente, su questa piattaforma una banda suona della musica country, ballabile, confusa, e per questo danzata dalla miriade di persone che è intorno ad applaudire gaudente. Vediamo Harlan sorridere, sembra la prima volta ma in realtà è l’ultima, perché ha vissuto il suo sogno, ricongiungersi con quel mondo perduto che vediamo celebrato solo nei film. Anche Lonnie si sveglia, viene richiamato da Harlan a scendere per godersi lo spettacolo, il sogno, ma Lonnie a suo volta gli grida di stare attento, che i nemici stanno sopraggiungendo sul loro cavallo al trotto. Stacco brusco della mdp su una Panavision nascosta fra due case, ora sugli inseguitori che scendono dall’automobile puntando le loro pistole. La magia del cinema è compiuta, il sogno è sopraggiunto attraverso un climax emotivamente spiazzante e svanito con altrettanto stordente. Questo momento ci sentiamo di appuntarlo tra i più belli degli ultimi tempi cinematografici, ben innestato com’è in un manto di costante, freddamente allegorica, crescente tensione, palpabile fin dalla presentazione dei personaggi, relegati come sono nei loro “caratteri”, in maschere da tipica provincia americana. Tanto che l’incipit ci ricorda immediatamente quello della partenza del giovane texano Jon Voight in Un uomo da marciapiede, qui richiamato dall’abito tipicamente cow boy di un Edward Norton complesso, ermetico, a tratti davvero indecodificabile. Così come la “dimensione d’uomo” della qui sofferente cittadina, letteralmente trapassata dalle molteplici direttrici autostradali, assopisce ancora una volta quelle tensioni comunque fitte e palpabili di contesto familiare che trovavamo già in A history of violence di David Cronenberg. Le ragioni sono diverse, i ponti semiologici anche, ma l’apparentemente solare cow boy dimenticato risorge proprio nel congestionato incrocio autostradale che ha per cornice una città di motel, stazioni di servizio e fast food. Con il cappello in testa e la sacca sulle spalle approda in un distributore di benzina per guadagnarsi di che vivere, ma è solo un flash, una sistemazione più che provvisoria per un freelance nostalgico che non conosce leggi se non quelle dettate dalla libertà del passato, da lui rimpianto sottecchi. In realtà questo lavoro ha durata breve perché un altro momento cruciale nel lavoro di Jacobson si sta per stagliare davanti ai nostri occhi, una visione romantica piena zeppa di sospetti, dubbi ed inquietudini, ma depurata dai rassicuranti risvolti espressivi di due splendidi attori come Norton e la Rachel Wood: l’avvicinamento dell’auto di ragazzi, fra cui la bellissima October, al distributore dove Harlan è seduto noncurante a riposare, in una classica posizione sorniona da cowboy affaticato. Dall’auto richiamano la sua attenzione per farsi fare un pieno, e lui, subito, impacciato, esaudisce il loro comando andando ad immettere il tubo dell’erogazione nel serbatoio, ma rimanendo colpito durante un gesto già così abituale da una figura di donna posata nel bagagliaio, pensosa. Basta uno sguardo, un gioco di geometrie tra finestrini, cielo e tetto della stazione di servizio, due volti per un amore totalizzante, strano, profondamente strano. Un uomo già maturo ed una ragazzina di diciassette anni sembrano poter condividere qualcosa di unico insieme, fin da subito. I due vanno al mare, scopano affannosamente, le parole di lui condizionano terribilmente la fascinazione che lei subisce fino a farle perdere completamente la testa. Noncurante del patriarcale regolamento imposto dal padre, un impeccabile David Morse, a lei ed al fratellastro minore Lonnie, Tobe si ritaglia intere giornate di fughe nel verde, su cavalli ed altalene per realizzare il suo idillio d’amore, insieme al suo uomo. Un amore già maturo, perfetto, una corsa verso la felicità destinata a frenarsi bruscamente. C’è una scena che ci dà sentore di una possibile svolta semantica, che il secondo film dell’americano Jacobson (Dahmer) potrebbe assumere da soave sinfonia rossa passione com’è, ovvero quando dopo la corsa a cavallo, Harlan e Tobe tornano a restituire l’animale a quello che il primo saluta come un vecchio amico: “Charlie!”, tagliatissimo Bruce Dern, ma che in realtà punta il fucile contro tutti e due. Un atto inspiegabile ma giustificabile dal fatto che Charlie non ricorda di conoscere l’amico Harlan, ma anche una dinamica inquietante per come venga rivelata, al contempo, la completa mancanza di conoscenza da parte dei due uomini.
Anche qui uno scambio d’identità, di culture da parte dei diversi personaggi, un susseguirsi scrosciante di emozioni soffuse, sottili ma dettate sempre dalla scelta di un tempo giusto da parte del giovane cineasta. Una storia di violenza che si definisce solo con il passare incessante e impercettibile dei minuti, che paiono più che altro piccoli brividi, dubbi e insinuazioni che si è portati a fare in corso d’opera. Nel frattempo l’approdo alternante di diversi temi scottanti a livello sociologico, come la sconfortante sudditanza all’automobile cui ogni giorno l’uomo fornisce nuova linfa, e il concetto già tastato dell’identità che uno ha di fronte, potenzialmente spergiura anche di fronte allo specchio di noi stessi. Finale emblematico per la scalata molare di congetture capillari, evidenti ma non per questo meno efficaci sul piano della significatività, come l’appresa fuga finale di Harlan in una cittadina in costruzione che sarà cimitero dei suoi ideali, dentro quel design bianco, asettico, che lui macchierà di sangue, come smacco a qualcosa che non riesce a comprendere perché per primo non comprende lui. E il cavallo chiuso in un garage per non farlo scoprire tenta disperatamente di aprire quella parete di metallo così ostinatamente serrata, come a dire che per la natura animale non esistono confini, misure, ma è bene preservare quello spazio incontaminato da riservargli per un futuro più roseo. I garage sono fatti per le automobili, e la contemporaneità per le automobili e per gli individui autoimmobilizzati.
Harlan è la dimostrazione che la riflessività del passato, la pacatezza ed il suo romanticismo, più volte parafrasato dal montaggio come nella successione di dissolvenze incrociate durante il bacio fra lui e Tobe, non possono conciliare con la voluttuosità del presente, la sua velocità incontrollabile e incomprensibile a tutti i sensi. Come il far west può tornare a rappresentarsi attraverso la macchina del tempo chiamata cinema, così anche Harlan sbuca dal nulla dentro l’immagine filmica, ed entrambe ci riportano alla realtà dopo che la parola “fine” è apparsa sullo schermo ormai nero.
E’ il momento di andare a scovare i nostalgici, i vagabondi e gli eremiti. In questo film, difatti, vi è anche una piccola fetta di antropologia culturale.
In vetrina al Certain Regard cannense.

(26/10/06)

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