DRAG ME TO HELL
REGIA: Sam Raimi
SCENEGGIATURA: Sam e Ivan Raim
CAST: Alison Lohman, Justin Long, Jessica Lucas
ANNO: 2009
A CURA DI LUCA LOMBARDINI
BACK TO THE
EIGHTIES (ASH IN GONNELLA)
Imbattersi ora in Drag me to hell
equivale ad aprire le pagine del racconto di Richard Matheson Incubo a seimila metri mentre si sta leggendo il
romanzo Io sono Helen Driscoll. Con tre Spider
Man a curriculum e il quarto capitolo dedicato alla saga del tessi
ragnatele di quartiere in avanzata fase di pre produzione, Sam Raimi si prende l’autoriale
libertà di rispolverare un soggetto concepito all’epoca di Dark Man assieme al fratello Ivan per tornare all’horror tout
court, primo amore della sua superlativa carriera di giovane/vecchio cineasta
(credeteci o no il nostro ha “solo” cinquant’anni), tirando
fuori dal cilindro una gemma di raro valore, con buona pace e soddisfazione
dei fan più intransigenti. Tanto dal punto di vista tecnico, quanto sul
versante dello stile e dei registri utilizzati, questo irresistibile
“intermezzo” si lega alla trilogia de La Casa con l’inestricabilità del nodo scorsoio (prova ne è
la scena del bagno di fango nel cimitero, dove Alison Lohman sveste i panni dell’indifesa impiegata di
banca per tramutarsi nella versione femminile di Bruce Campbell). Nel tempo del digitale e della computer grafica
imperante, Raimi si atteggia ad
eremita della narrazione per fotogrammi, optando deciso per una regia in
35mm, dove l’artigianato della messa in scena e l’orrore
suggerito, ma quasi mai mostrato, la fanno da padrone. Da una parte la
volontà di non tradire artifici e principi che tanto grandi resero le sue
primigenie opere, dall’altra la dimostrazione di quanto sia servita
l’esperienza nelle vesti di produttore con la Ghost House Pictures, società
di produzione dove è transitato, tra gli altri, Takashi Shimizu per il remake a stelle e strisce di Ju-On (alias The Grudge). Tutto si può dire o rimproverare al filmaker
giapponese, tranne che non sappia miscelare correttamente le giuste dosi di
suspense. Dote che Raimi sembra
aver addirittura aggiornato, e in meglio, supervisionandone la lavorazione.
Divertito e divertente, Drag me to hell
possiede tutte le peculiarità del “Raimi’s
movie” pre Gioco d’amore:
inquadrature sghembe al limite delle leggi di gravità, interi passaggi in
grado di schiacciare lo spettatore sulla poltrona (uno su tutti
l’agguato slapstick nel parcheggio notturno), ombre inquietanti,
sinistri scricchiolii e improvvise esplosioni di furia sonora, con tanto di
pentole che cozzano tra loro come ripossedute e camere da letto ridotte a veri
e propri campi di battaglia. Tutto questo senza dimenticare il giusto alternarsi
di brivido e comicità, con una sola eccezione: la sequenza
dell’apparentemente risolutiva seduta spiritica, durante la quale il
regista si lascia prendere la mano dal voler sdrammatizzare facendo ridere a
tutti i costi, finendo per risultare prolisso e poco convincente.
Un’inezia se si tiene conto del risultato finale di una pellicola che
approccia alla maniera di Constantine
e mantiene, per gran parte della sua durata, ritmi incalzanti e pause zero.
Qualità degne del miglior Lucio Fulci.
L’inevitabile parallelo con The
Evil Dead, inoltre, si rafforza grazie al pretesto malefico che si
tramuta nel motore scatenante della vicenda. Se ne La Casa tutto o quasi prendeva vita subito dopo la scoperta
dell’occultato Necronomicon, la vertigine di Drag me to hell ha inizio nel momento in cui la povera Christine
viene toccata dalla lamia. A trent’anni di distanza dalla sua prima
creazione, quindi, Raimi torna ad
armeggiare con superstizioni o presunte tali, rivisitando una leggenda nata,
nel mito greco, dal nome della meravigliosa regina di Libia, figlia di Belo e
amante di Zeus, talmente affascinante da sottrarlo alle amorevoli braccia di
Era. Quest’ultima, per vendicarsi del tradimento, uccise la prole
generata dall’adultero rapporto, scatenando così l’ira di Lamia,
che iniziò a sfogare il dolore per la perdita della prole assassinando, dopo
averne succhiato il sangue, i neonati dei comuni mortali. Ci piace pensare
che Drag me to hell sia
esclusivamente questo: un signor film dell’orrore girato con un budget
limitato, tante (buone) idee, due discreti attori e qualche caratterista al
posto e al momento giusto. Indagare tra le righe alla ricerca di eventuali
dicotomie tra psicologia e magia nera o di parallelismi tra il denaro e la
figura demoniaca fino al punto da resuscitare la figura dello yuppie avido di
guadagno, e per questo meritevole della massima punizione possibile,
equivarrebbe a caricare la pellicola di pesi e responsabilità che non è in
grado di sostenere. Essi vivono o Society the Horror, pur essendo figli
degli anni ’80, sono una cosa. Drag
me to hell un’altra. Per fortuna.
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