DREAMGIRLS

REGIA: Bill Condon
SCENEGGIATURA: Bill Condon
CAST: Jennifer Hudson, Beyoncè Knowles, Jamie Foxx
ANNO: 2006


A cura di Pierre Hombrebueno

OPERAZIONE TRIONFO MAL RIUSCITA

Molto più vicino a quel bruttissimo Walk the line che a Chicago, che almeno sulla carta e dalle tante immagini intraviste sembrava esserne il fratello-gemello.
E già questo significa, da parte di Bill Condon, sacrificare e allontanarsi da quel getto a specchi off-broadway che aveva caratterizzato l’opera di Rob Marshall, ed in fondo fino a qui sarebbe pure un grande pregio, perché almeno si è evitato di rendere il tutto una sana fotocopia (che contro l’originale per forza di cose perde il proprio valore), cercando invece una strada alternativa per riportare sui grandi schermi, ancora una volta, echi di gloria di un genere ormai creduto e sentenziato morto fino a pochissimi anni fa.
E almeno per una buona metà della narrazione, l’opera funziona meravigliosamente, proprio per la mancanza di un effetto riproduttivo clonante, e soprattutto per la messa in scena adottata dal regista: pur essendo delle riprese in teatro, con le canzoni che vanno sul palco, Condon gestisce lo spazio risaltandone la dinamicità e il movimento, con lunghi piani che non rischiano mai di cadere nel dettaglio con l’errore estetico di un effetto morboso. E’ una rappresentazione scintillante senza ricorrere all’onirico o al fantastico (moulin rougiano), una consapevolezza di voler rimanere nell’ambito teatrale rinunciando però ai suoi canoni per trasfigurarsi col linguaggio cinematografico, l’abilità registica di un metteur en scéne che ri-adatta gli stilemi del cinema classico americano ad una ritmica totalmente post-moderna e post-mtv, aiutato anche e soprattutto da un montaggio che congiunge con musicalità e ritmicità i diversi raccordi alternati. Veloci sguardi sul palco in panoramica, e poi dietro il backstage con bruschezza inavvertita, necessaria e giusta. Che dire poi dei montaggi-sequenza assolutamente funzionali per condensare la vivacità della narrazione senza inciampare mai in punti morti o blocchi para-ottici? Almeno fino a qui, Dreamgirls sembrerebbe possedere tutte le potenzialità per essere un ottimo film, nonostante le prime apparizioni di una Jennifer Hudson tanto elogiata e premiata quanto copia sterilizzata e incrocio fra Missy Elliot e Queen Latifah, e poi dopo non diteci che siamo razzisti se affermiamo che questo è il tipico ruolo da nera un po’ cicciotella quanto antipatica e tendenzialmente carica di battute ad effetto. Ma questo è solo l’anticipazione (attoriale, per giunta) di quanto il film cambi radicalmente nel suo secondo tempo, e probabilmente ne è da incolpare in primis la sceneggiatura, l’idea di base, fondante, per quanto diversi ancora affermino che una sceneggiatura scritta male può essere risolta da una regia e un montaggio coi controcazzi, il che è effettivamente un altro punto su cui dibatteremo.
Perché fino a prova contraria, è facile verificare che la sceneggiatura di Dreamgirls, oltre ad una degna presentazione dei vari personaggi, cada poi in una vuotezza auto-annullante, scritturando una serie di numeri musicali senza più una vera significazione se non la musica stessa. Spiegandoci meglio, da una sceneggiatura prettamente narrativa e cinematografica quale la prima parte, passiamo invece ad un’alternativa schematica musicale ed unicamente musicale nella seconda. E ben presto, Dreamgirls esaurisce le cartucce, il climax verso l’intreccio necessario, pianificandosi in una linearità dove nessuno ha più nulla da dire (e soprattutto: da mostrare), e così ci si dà alla pop-roll e r’n’b delle canzoni, dimostrandoci solo ed unicamente una cosa: Jennifer Hudson e Beyoncè Knowles sanno cantare. Il che, diciamocelo, va benissimo. Peccato però che non siamo andati al Cinema per vedere un Concerto, per quanto possiamo essere amanti di musica e di belle voci.
A questo punto, andiamo oltre e riflettiamo quanto effettivamente una brutta sceneggiatura possa influenzare un film sotto le sue vesti registiche. Partiamo da una considerazione che molti cinefili (tra cui il sottoscritto fino a poco tempo fa) osano sostenere con frequenza: “persino un fiore qualsiasi ed insignificante, se inquadrato bene, diventa un’opera d’arte”. Ebbene, è vero solo fino ad un certo punto. Ovvero, si, diventa un’opera d’arte, ma prettamente fotografica e non necessariamente cinematografica. Al massimo, sarebbe magnifico video-arte, ma non automaticamente cinema. Perché il Cinema, preclude di essere un’arte interpretativa: la macchina da presa e il montaggio interpretano la sceneggiatura, che rimane il punto di partenza che limita la regia stessa.
Stando a ciò, per quanto un regista sia abile, fare Cinema con il “nulla” è dote autoriale posseduto da pochissimi, in primis Lynch (come rivela anche il suo ultimo INLAND EMPIRE), ed è certamente capacità introvabile (almeno fino ad oggi) in un territorio come il Musical narrativo. Se poi la causa della sceneggiatura annullante è da riporre allo stesso regista che l’ha scritta, allora è proprio un tirarsi la zappa sui piedi.
Così, finite le presentazioni, assistiamo all’anestesia emotiva totale, mai coperte da un pathos avvolgente né tantomeno stucchi di un qualsiasi tipo di evoluzione del racconto o della psicologia che non sia assolutamente banale e inconsistente. Il tutto si riduce ad essere una sorta di Operazione Trionfo su grande schermo (e non scordiamoci che la Hudson viene proprio da American Idol, concorso canoro televisivo corrispondente), che finisce forzatamente a cancellare gli entusiasmi più pulsantemente cinematografiche. Non c’è più Cinema qui. Chiudiamo pure gli occhi e ascoltiamo le belle canzoni che scorrono senza tregua. Ma se fossimo stati avvertiti, preferiremmo aver ordinato la colonna sonora per ascoltarcela con le cuffiette in casa. Non solo è tanto più comodo, ma almeno non avremmo sperato di assistere a qualcosa di filmico, spezzandoci un pezzo di cuore per qualcosa che sembrava una stella lontana, ma che invece si rivela solo spazzatura della peggior specie
.

(05/02/07)

HOME PAGE