EJFORIJA
REGIA: Ivan Vyrypaev
CAST: Polina Agureeva, Maksim Ušakov, Mihail Okunev
SCENEGGIATURA: Ivan Vyrypaev
ANNO: 2006
A cura di Davide Ticchi
VENEZIA 06’:
LA MELMA SU DI NOI
Ripensiamo per un momento al cinema di Bruno
Dumont, che nelle Fiandre ha realizzato due
grossi teoremi filmici riguardanti il rapporto uomo-terra, terriccio, fango od
epidermide, scomposto da una dimensione sociologica più vasta come
l’avere a che fare con ciò che normalmente viene
edificato sulla superficie del globo: le istituzioni. Se i protagonisti di La vie de Jesus
e L’humanité,
film del regista sopra citato, reagivano e sopperivano unisonamente
alla deformante trazione del suolo ed alla convenzione comportamentale, non
fare un cazzo dalla mattina alla sera se non
gironzolare in moto per questi sterminati campi verdi/marrone, o indagare su un
caso di violenza, stupro e uccisione seguendo le orme di un investigatore
deperito da noia e disillusione; in Ejforija, il cui titolo giganteggia sullo sfondo nero di un
film buissimo e limpidissimo, tutto questo relazionarsi, arrangiarsi e
districarsi nella tediosissima vita quotidiana viene incarnato da una storia
ancor più semplice, che per paradigma sintattico/estetico ricorda molto più
quella di 29 Palms
del regista francese, e che a livello di messa in scena, luci e colori, si
avvantaggia delle intuizioni sperimentali di un cineasta esordiente dal grande
fiuto visivo e visionario, oltre che porcamente terrestre. Perché se anche
questo cinema merita un genere, lo merita a parte, considerato
che tutto quello che l’ “altro” cinema insegue è
quello che sta sopra il manto erboso, melmoso e pietroso, di cui questo Ejforija si
sporca tutto, rotolandosi sul selciato, abbracciandolo, annusandolo e
sotterrandosi o sprofondando nel blu profondo delle acque fangose. Del resto la
storia è molto semplice, lo scenario terribilmente suggestivo,
cosparso com’è di campi di grano sormontati da cieli perennemente azzurri
o ricoperti di nuvole rabbiose secernenti acqua a fiumi dirompenti, chiassosi
di grida sovraumane come tuoni. “Non ho paura dei tuoni ma ho
paura”. Potrebbe fare paura a Vera il Tutto del quadro paesaggistico che
sembra uscito da una raffinatissima landscape art? La
protagonista del film sa solo di essere profondamente confusa come il suo
amante, divenutolo dopo uno sguardo senza significato scambiato durante il
matrimonio di un amico condiviso. Il loro incontro è fra i più genuini e rurali
della storia del cinema. Le panoramiche aeree si susseguono e mostrano questa donna
che bada alla propria figlia mentre gironzola nei prati ingialliti dal grano,
il protagonista, Pasha, che raggiunge in macchina la
collina sovrastante e comincia a scendere palesandole il suo stato
d’incomprensione a livello sentimentale, di cosa possa provare lui per
lei, o lei per lui. Insomma non c’è nessun altro. Le distanze tra nulla,
terreno desertico, e abitazioni sono immense, smisurate, tanto che ognuno le calcola a modo suo, senza badare a fatiche, nascoste a sé
stessi da un’immancabile bottiglia di Vodka, sempre in bocca, o alla
disperazione più assoluta e perenne. I volti esprimono tutto ciò segnati come
del legno nodoso di un albero morto, su cui il marito vendicativo di Vera
appoggia la propria giacca. Le composizioni musicali sono poche ma
incredibilmente penetranti, in ancestrale sintonia con
le lande sterminate che circondano le anime fantasmagoriche dei protagonisti.
Solo la bambina, simbolo convenzionale di purezza, non potrà udire le
commoventi note di queste melodie, perché Pirata, un cane aggressivo, le ha tranciato via un dito, ed il padre sembra avergliene portato
via un altro, con delle forbicione che fino a poco
prima erano appese al muro come simbolo di ruralità.
Anziché alleviare la sofferenza dei pochi prossimi che ci circondano in questa
landa, metafora dell’esistenza subordinata alla società tipicamente
asfaltata da strati di catrame, la si amplifica,
perché come non ha senso guarire nemmeno ha senso soffrire di più, ma tra le
due è la più semplice. Scopare che restare fedeli. Ubriacarsi che restare
sobri. Morire che vivere. Sofferenza per sofferenza si sceglie sempre quella
che dura di meno. E i nostri antieroi soffrono come cani aggressivi e rabbiosi, mucche e capre soffocate dalla melma che le
ricopre. Non conoscono la parola Amore, ma la provano animalescamente,
denudandosi e attorcigliandosi insieme, in un unico motivo di bellezza e
armonia eterna di cui nessuno può essere padrone immortale, per la sua stessa
condizione di essere umano.
Non vi è mai uno scenario idilliaco a tutto tondo in Ejforija, ma una bellezza
scenografica sempre macchiata di sangue, sperma ed incomunicabilità. I
contadini sono macellai, uccidono gli animali. I
genitori sono degeneri, ricoprono di sdegno i propri
figli. I paesaggi corpi di funerea bellezza, calpestati brutalmente da anime
brade. Selvaggio e primordiale l’esordio di questo poco
più che trentenne regista russo. Elargisce immagini di violenta
bellezza, notti bluastre che colorano i campi, corpi nudi e sporcati di melma,
un uomo felice su di un sidecar tra due strade preferisce andare nel mezzo, fra
il grano e la primitiva conformazione del terreno, che proviene diritta dai
tempi di Adamo ed Eva. I due amanti biblici li
ritroviamo nudi, senza orpelli a mascherare i loro sessi, frasi fatte a
nascondere quella loro cristallizzata mancanza di cose da dire. In fondo resta
un radicato senso di alienazione del nulla,
dell’antisociale, del nonsenso, in un non luogo che è semplicemente il
mondo alla sua origine pietosamente naturalistica. In fondo, tra paradosso e
crudezza, tortura e riscatto, naturalismo e contaminazione meccanica, Ejforija ci
fa rimpiangere la lividezza dell’urbanità classica, dove intrecci logici,
stantii e tumefatti, saranno causa della dimenticanza
di questo piccolo capolavoro dalla rara portata esistenziale e humus
preistorico. Ma noi vogliamo provare a non smettere di ricordare quello che
abbiamo amato più di ogni altra cosa.
Il cinema che si fa natura, origine di tutto. E sua euforia.
Applausi e risate a Venezia 63.
(20/09/06)