L’ ESPLOSIVO PIANO DI BAZIL di Jean-Pierre Jeunet

REGIA: Jean-Pierre Jeunet
SCENEGGIATURA: Jean-Pierre Jeunet, Guillaume Laurent
CAST: Dany Boon, André Dussolier, Yolande Moreau, Dominique Pinon
ANNO: 2009

PIEDISTALLI SOTTOVUOTO

Micmacs à tire-lagirot, qualcosa che dovrebbe (potrebbe) essere tipo “Burle a go go”, suppergiù, il titolo originale. E, grossomodo, una promessa (premessa) mantenuta. 
Jean-Pierre Jeunet non ha ancora smentito la parvenza d’essere uno di quei registi che, qualsiasi elemento nuovo (o reputato tale) aggiungano alle loro opere e qualsiasi nuovo passo muovano, permangono e rimangono mancanti e considerabili per un’unica performance, non detto sia neppure la migliore, magari baciata dalla fortuna tecnologica del momento, dall’intento sperimentale, dall’abbracciarsi di immaginari svariati: quel Favoloso mondo di Amélie che nel 2001 esprimeva tutto(?) il potenziale artistico e visionario che la manipolazione cromatica del digital intermediate ad un certo grado evolutivo poteva dare, unito al riesplorarsi del suo regista. Lo stesso riesplorarsi che, stremato, aveva poi dato Una lunga domenica di passioni, due ore e mezza di nulla cosmico, vetta inversa.
L’esplosivo piano di Bazil, adesso (anzi, più di un anno fa, visto il ritardo letargico con cui è arrivato in Italia), è atteggiamento a metà tra un museo e il trenino degli orrori del luna park: di sala in sala sculture/dipinti/arazzi o streghe/boia/fantasmi; aggregati per schema artificiale, per data, per somiglianza, per corrente, per didattico/scherzoso intento che diventa elenco, catalogo, senza poter uscire dai binari, senza mai sbavare un elemento sull’altro, nel meccanismo del già deciso, del piedistallo istituzionalizzato, delle pillole di perfezione sottovuoto, dello sketch isolato, con pura e semplice aria tra uno e l’altro, senza aromi o fumi inebrianti.
Capolavori di slapstick effimero, muti e sordi tra loro, per la sola durata di una scena se non di un’inquadratura, effetto claustrofobico.

E, riplasmandosi su Jacques Tati (come L’illusionista di Sylvain Chomet, che però sta a Bazil come Mosè sta agli invasati vestiti di iuta con i loro cartelli e la loro fine del mondo), L’esplosivo piano di Bazil, una volta digerito, non può fare a meno di ricordare quanto sia indefinito, nell’essere sfocato in sottigliezza, il confine tra il memorabile e il superfluo, il poetico e il melenso, la completezza e il grossolano: volendo stare in equilibrio – come già tutta la sua filmografia del suo regista – tra la squisitezza ed il grottesco, sono nuovamente messe a immagine in una danza d’oscurità calorosa, istantanee pittoriche che lasciano, sul corpo dei suoi personaggi e negli occhi di chi guarda, mancanza di libertà, ostruzione; maschere di gomma deformata e poco elastica, da come data ed immodificabile, non interpretabile o sfruttabile; una plasticità senza scampo, agonia sfiorata. I personaggi non riescono ad uscire, a vivere, a respirare, perché bloccati come prigionieri imbavagliati, legati, lacrimanti dentro corpi condannati a volti contorti da pagliaccio e ad un statuario che li porta a fondo, rendendoli relitti subacquei, con tutte le sporcizie, biologiche o meno, dei fondali.
Jeunet è costrittivo, totalitario, un direttore di museo, un dittatore degli spazi e, nonostante innegabile gusto, dall’effetto “scopa nel culo”: tutti i momenti di Bazilnon hanno un minimo brio o ballo mentale (drammatico/sentimentale) d’apparire come una-scelta-del-suo-regista (amabile/odiabile), non danno indizi (o una qualunque propulsione ad utilizzarli) su cosa possa esservi dietro un palazzo, dentro una finestra, in fondo ad un tombino; anzi soffocano qualsiasi proposito, qualsiasi spinta voyeuristica, legando ogni pensiero all’infimo dell’immagine, nel momento in cui questa è insufficiente, autocompiaciuta, esaltata ed incompleta (nell’essere ermeticamente a ciclo chiuso), negazione d’aria. E il gioco diventa giogo, l’occhio resta bovino (come quello di Dany Boon), mentre attende di essere reciso.

Condividi

Articoli correlati

Tag