E VENNE IL GIORNO

REGIA: M. Night Shyamalan
SCENEGGIATURA: M. Night Shyamalan
CAST: Mark Whalberg, Zooey Deschanel, John Leguizamo
ANNO: 2008


A cura di Sandro Lozzi

IL COLORE DISPERSO NELLO SPAZIO

Le piante della Terra sono arrabbiate perché noi uomini siamo dei cattivoni, e si coalizzano tra loro per farci fuori, spingendoci al suicidio attraverso una tossina prodotta e dispersa nell’aria con l’aiuto del compagno vento.
Se non vi è finora balzato in mente il dubbio che io sia completamente scemo o almeno che stia scherzando, potete tranquillamente fermarvi qui e dedicare i prossimi cinque minuti a tagliarvi le unghie o a fare uno spuntino, poiché sto per scrivere di cose che evidentemente non vi interessano in alcun modo.
Perché, se è vero che il nocciolo della questione, poi abbastanza semplice da cogliere, è che l’unica spiegazione agli eventi che Shyamalan avalla nel film sia quella che viene fuori quando finalmente gli uomini smettono di rifugiarsi dentro il loro mondo di costruzioni e barriere, materiali o astratte che esse siano, altresì il grosso rischio che la pellicola si accolla responsabilmente è quello di poter spingere la parte disattenta del pubblico a credere a ciò che il regista mette continuamente in ridicolo, perché come i suoi ridicoli personaggi ha bisogno di spiegazioni, modelli statistici e percentuali.
Non sono pochi quelli che ridacchiano in sala trovando del ridicolo in E venne il giorno, ma probabilmente non si accorgono di stare ridendo di sé stessi. O forse invece se ne accorgono e ridono per autodifesa, preoccupati più dalla crescita del proprio naso che dalla scomparsa delle api. In The happenning la parola, e con essa il pensiero, non tengono il passo dell’immagine, ed è per questo che la gente si immobilizza, mentre uno, il soggetto del – momentaneo – punto di vista, parla cercando di capire cosa succede. Gli esseri umani di Shyamalan si immobilizzano e perdono la parola perché gli esseri umani nel mondo reale non vanno più da nessuna parte e non si dicono più niente.

La critica spietata di M. Night si rivolge infatti, questa volta, e ancora una volta, a quello che siamo diventati, al mondo che ci siamo costruiti, un mondo di costruzioni e barriere appunto.
Un mondo in cui l’incomunicabilità la fa da padrona; la comunicazione e persino la sua stessa premessa, la compresenza fisica, sono inibite dall’essere affidate sempre più esclusivamente ad una variegata serie di simulacri e feticci, cellulari apparecchi televisivi e fotografie, immagini e video, ma non solo, costruzioni e barriere lo sono case e palazzi, strade e mezzi di trasporto, lo sono in fondo persino i parchi (spazi che noi concediamo alla natura), ma lo sono certamente anche la parola e il numero, le teorie e le elaborazioni di dati, riflessi del nostro sguardo sul mondo. Viviamo in un mondo di specchi e simulacri, in cui le due torri di una centrale nucleare possono apparire sullo sfondo di un paesaggio al posto di due colline, un mondo in cui quello che ci meritiamo (“You deserve it” è scritto sul cartellone pubblicitario) è una model home (non casualmente coeva della model town in cui avviene l’esperimento nucleare nell’ultimo Indiana Jones) in cui “tutto è finto”, persino cibi e bevande, persino monitor e libri che sono già di per sé finzioni di realtà. Persino le piante.
Un mondo in cui la differenza tra i due gruppi che abbandonano le strade per trovarsi un riparo sta forse proprio alla base, ossia al criterio di formazione dei gruppi: quelli che sono pronti, e quelli che devono prendere la roba dalle auto, e forse quello che i secondi hanno lasciato nelle auto è loro stessi.
Un mondo in cui osservazione e interpretazione dei dati ottenuti dovrebbero spiegare tutto il possibile e il probabile, eppure il razionale protagonista fa una lezione a scuola su “un evento della natura che l’uomo non riesce a spiegare” e si trova poi nel corso del film ad esclamare per una decina di volte “Non lo so” di fronte ai fatti e ai dati.
Un mondo in cui Alma, che in effetti “è come se fosse distante, o roba simile” perché è forse l’unica a non “aver perso i contatti”, funziona continuamente come spia (“pensavamo che nessuno avrebbe più inventato malvagità come queste!”) o come espressione dell’impressione di realtà (“ti rendi conto quant’è schifosa la gente?”).

Un mondo in cui c’è sempre qualcuno che insegue l’altro, ed è Elliott che insegue Alma, è Elliott che ha bisogno dell’ennesimo simulacro, l’anello dell’umore, per sentirsi addosso quel blu che Alma ha dipinto negli occhi. Ma è sempre Elliott che alla fine sceglie di abbandonare un altro strumento di distanziazione, il tubo per parlare tra le due case, per ritrovare la comunicabilità, per ritrovare qualcosa da dire, per tornare a guardarsi negli occhi, trasmettendosi amore.
E il colore dell’amore, che i due non ricordano? Quello è lo stesso grazie al quale Ivy Walker riconosce sempre Lucius Hunt in The Village. È il colore che nei film di Shyamalan non si vede perché è il colore che manca al mondo ridicolo che mette in scena, il colore di cui quel mondo avrebbe bisogno per essere meno inadeguato.

 

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(22/06/08)

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