LA FABBRICA DI CIOCCOLATO
REGIA:
Tim Burton
CAST: Johnny Depp, Freddie Highmore, David Kelly
SCENEGGIATURA: John August
ANNO: 2005
A cura di Alessandro Tavola
TIM BURTON’S FOOL CIRCUS
Semplice, distorto, viscerale, sincero, imbrattato. Come il disegno di un
bambino di 8 anni, come è sempre stato Burton.
E dopo Big Fish questo è tranquillamente il secondo
capitolo del Nuovo Burton, quello che mette in immagini il padre perso e poi
diventato, quello che fa vincere i colori dirompenti sull’oscurità quando
prima invece accadeva il contrario, quello che finalmente sembra essere
gioioso. Ma se il pescione era fatto a Carandage, La Fabbrica
è tutto un pennarello.
Partono i titoli di testa, come sempre aleggianti, come spesso innevati, con
quella musica che ne fa esperienza audio/video a sé stante, ecco poi Charlie
nella sua baracca wieniana e la favola della buonanotte del nonno sul
fantomatico Willy Wonka, che fa scivolare d’un
botto al cuore del film, dove ogni elemento visivo, orale, musicale cresce e
ingrassa fino all’esplodere in un maestoso quanto folle fuoco
d’artificio, teatralmente sempre simile ma che contorcendosi su se stesso
diventa epidermicamente nuovo di scena in scena, perché (vista o non vista la
versione del 1971, letto o non letto il libro) c’è quel filo di giocosa
prevedibilità che rende il tutto pronto per l’uso, come
un’abbuffata di cui si conosce già il menù, come se il dirompere delle
immagini fosse sesso e noi voyeur, in questo gigantesco trip
fisico/mentale/visivo/formativo che (tra)passa a rotazione dal più puro svago
cromatico al più grottesco e sottilmente sadico umorismo nero, comicità e
sentimento da Disney d’annata e insano delirio coreografico
gigioneggiante e idealmente punk dove contenuto, forma e spirito si abbracciano
e fluidamente si mischiano.
Insieme inferno e paradiso, sfavillante limbo colorato di pastelli che pullula
di folli, overdose di espressionismo zuccherato e pop
da movie ‘60 macchiati di scintillante (ab)uso di effetti speciali
(fisici e digitali), sfociando del demente, nel musicale, e Danny Elfman è nel
più libero dei brainstorming, più funerei satiri che nani gli Oompa Loompa che
tranquillamente si spupazzano, ammiccando al gran pubblico, Kubrick, Hitchcock
e i Queen, folletti buffi e assassini seriali, in quello che è totalmente un
gioco di plastica dove si mischiano vittime e carnefici così apparentemente
senza senso da assumerne troppo e diventare ancora fanciullesco incanto e
infine classica morale.
Favoloso mondo di Tim e Isola che non c’è, che odorano di (ri?)trovata
serenità, di un punto di equilibrio personale
finalmente raggiunto, che viene incanalato in un film invece totalmente
squilibrato, un rimastico di un’intera filmografia che sembra quasi
rinnegarsi per umori e completarsi nelle astrazioni, ma contemporaneamente
semplicemente nuova espressione e nuovo passo del perpetuarsi di
un’opera. È sempre gigantesco carnevale e circo, o qualsivoglia forma di entertainment sardonicamente divertente e soffusamente
malinconica, che sembra quasi aver ucciso tutti i suoi demoni ma ricca ancora
di fantasmi ormai incarnati, siano festivi, cinefili, semplicemente
infantili… Bava, Halloween, Natale, paura, Corman, solitudine…
Anche se dopo quindici anni Edward sembra riuscito a scendere dalla collina.
Paese delle meraviglie, Johnny Depp cappellaio matto, che qui si riedita, ancora, incredibilmente, andando oltre la soglia
del semplice camaleontismo, nuovo clown triste nel museo burtoniano di
personaggi, de(pp)formi e non, qui stracolorato oscuro padrone di casa,
Virgilio e Diavolo insieme, imbambolato e sperso sognatore, sublime e
indelebile contrasto ambulante.
Manifesto di felicità ancora impura, da - e per - lo schermo, lezione di immagine, un balocco per tutti, massiccio e imponente
dolciume per chi sbaverà e gusterà e per chi ne rinnegherà il troppo semplice
sapore. Burton è Wonka, noi i bambini vincitori, ogni sala è
una fabbrica di cioccolato, La fabbrica di cioccolato è il premio.
(25/09/05)