Festival di roma 2014 (gone girls and boys to) – 1° decade(nza): in Trash we trust
Ci si fa colpire da demenza feroce, in un inaugurativo pellegrinaggio tra bagagli lasciati orfani negli appartamenti romani e documenti personali abbandonati: questo Festival che si preferisce Festa (ma ancor meglio fiera o sagra dei salumi – culinario presentissimo e ingurgitato dalla sottoscritta giorno 19 ottobre per non morire di stenti) si è aperto una domenica autunnale di natura ferragostana, deserto incandescente di locali chiusi, con la vaga vaghissima impressione che l’Auditorium si ergesse solitario alle soglie delle Colonne d’Ercole, buco intergalattico in technicolor, risucchiante il limitrofo, ove tutt’intorno i colori si desaturano, i giornalai chiudono, il cibo si disintegra, la fauna cinefila si dirada, il folklore mediterraneo si placa lasciando ai quartieri popolari e alle borgate, mistico incanto di una Roma che non esiste più, lo scettro per una locazione disorientante. Le vacanze romane hanno sapore elitario e ci si adatta a un lusso mai prima sperimentato, seppur sfamandosi un po’ e dormendo per niente, nutrendosi di cultura neopop e lasciandosi (letteralmente) alle spalle astri decadenti riesumati da La Cripta e l’Incubo, domandandosi se alla questione “cosa resterà degli anni ’80?” fosse imprescindibile rispondere proprio durante questa 9°, anziana edizione di massa: si arruola Gere per l’interpretazione di uno straccione iconograficamente lontano dai cassonetti – bastasse un vezzeggiativo di lana al collo a nascondere l’etichetta Armani – inerme antieroe di un opachissimo Moverman, tempo fuori dalla mente di chi sonnecchia in sala; compare Costner direttamente dal palinsesto pomeridiano di una rete privata, mentre noi ci si intrattiene udendo le voci popolane del vaneggiare tra densissimi e iperbolici vocaboli, “bello bellissimo molto bello interessante e simpatico”, e c’è persino chi s’improvvisa positivista d’indole nell’estremizzare allucinogeno del marchio a fuoco: “disgustoso”. Per gli Spandau Ballet nel segno rafforzativo del glitter glam trash ora long suit, superstiti fenici che si levano di dosso cenere e brillanti, noi perdiamo l’occasione dell’applauso, mancando l’obiettivo: you’re indestructible, always believing. E allora (godiamoci una) decade di decadenza: paste scotte delle due di notte, fabbriche social di selfie mal funzionanti, pattinaggio di terra tra le sale come lunghissimi corridoi d’ospedale, evanescenze di concerti in code sofferenti ove gl’isterici possano riguardare il film della mattina, passerelle dei divi di Mamma Roma che si raggomitolano davanti ai fotografi con le buste della spesa – chè tanto noi si abita dietro l’angolo insieme a Venditti – Willem DaFoe marchetta italiana delle rassegne cinematografiche, vincono i film non visti e la sconfitta ego-maniacale, intuizioni di opere lisergiche malatissime inquinanti da adorare, Tusk Tusk Tusk, cocenti traumi alle sinapsi e battiti spezzati con Corbijn mezzo- regista, mezzo- tutto che in A Most Wanted Man declina testo e sottotesto in virtù dell’an-estetico e della negazione di ogni privilegio fotografico e narrativo, né civile, né classico, né cinema. Le cornee (s)palpitano di dolenza e amarezza senza fine. Il rimanente sottostrato sociale cinefilo si aggira nell’alone sofisticato delle novelle di stampo cine-panettone cine-spazzatura, in un’esanime omaggio all’erotismo pedagogico pasoliniano, ma è un’inside joke del tutto riservato che preferisce rimanere nell’anonimato. E soprattutto, gl’inevitabili film tediosi oggetto di critico apprezzamento posteriore, ma di livido e scarno entusiasmo in fase digestiva, a esempio Lucifer, Gust Van der Berghe, che vede il suo motivo di maggior attrazione nel formato circolare della visione a tondoscope e nel suo intento auto-riflessivo su un primigenio cinematografo, con l’immagine a 360° che si fa scalata dantesca e palla cosmogonica colma di contemplativo simbolismo, ove il pellegrinaggio del Lucifero a fattezze umane dispiega un’esplorazione profondamente e compassionevole antropica degl’automatismi religiosi tutti: il protendere verso il Cielo mediante il qualsivoglia mezzo, che sia chiesa, megafono, voce inaudibile e inaudita; il gettare uno sguardo disincantato sui fittizi espedienti miracolosi di un culto, a cui s’intrecciano folklore, credenze, rituali; l’ingenua parata di un innocente microcosmico villaggio, dipinto quasi anti-biblico, spirituale. I deliri spastici per le opere, finalmente, si riesumano, dopo l’assopimento artico cerebrale veneziano: il Fincher (dicono) mestierante e il Miike spassoso itinerante nei generi partoriscono fenomeni di collettiva allegria e reverenza, con le immense visioni replicate di Gone Girl e l’abbagliato ghigno ironico-malinconico di As The Gods Will, riempiendoci la vista dello schermo gigante, onnivori come sempre. I bagliori minori regalano minuti evocativi di piano sequenze incontaminate e lucentissime di sovraesposizione come Ana Lily Amirpour e la sua iraniana vampira assetata d’amore solo, anch’essa storia di decadenza in formato fanta(stico) – urbano, celebrazione dei silenzi estatici nelle inquadrature formali. E il microcosmo naif trabocca pure di pacati edulcorati sognanti esordi tedeschi, About A Girl di Mark Monheim, elementare stampo ove i drammi si fanno commedia nel discorso formativo della giovinezza, con il gusto per nulla ambizioso del ritrovare il semplice nel linguaggio, pur proponendosi smaccatamente propedeutico e sociale, ma visivamente scevro di sovrastrutture ostacolanti od orpelli nevrotici. Nel substrato familiare (dis)funzionale, nelle culture rock e nel distacco dalla vita e dal proprio centro emozionale: Girl wants to kill herself. Girl falls in love. Girl survives. Il positivista rimane adolescente e si bea dell’esercizio di stile di Tokyo Fiancée, neo-Amélie Poulain, neo-romantica attrazione per il policromatismo e l’essenza estetica dell’immagine e degli attori (tutti bellissimi), un po’ fotogenia, un po’ deragliamento narrativo verso noiosi acquitrini e programmatico irrigidimento caricaturale delle rappresentazioni, statiche copie carbone di cliché culturali, salvo un’impennata agrodolce conclusiva: un film da tagliare, tagliare, tagliare. Il segno mortificante dell’impotenza espressiva, o del potenziale affogato, prosegue poi con l’intera programmazione italiana, tra opere pregne dispiegate malamente nella tecnica, sebbene si esulti per i risultati mai tragicamente letargici e inconsapevoli (I Milionari, Tre Tocchi), e altre smaccatamente italiane nel gusto della commedia di nuova (?) generazione (Andiamo a quel paese), rigurgito incredibilmente incosciente dell’italianità media, buchi neri di comicità, sterilità registica, decontestualizzati virtuosismi, acuta depressione.
Decadenza seducente, dunque, se non con fasti filmici ragguardevoli (Mondo Genere, su tutti) che ravvivano il sangue e pongono l’accento, luttuosamente, su tutta un’altra rassegna da rimaneggiare, vivificare, strigliare, quella veneziana, che perde rovinosamente il ring e ci fa sentire tutti un po’più stanchi di stare a guardare senza sentire. L’esalazione malinconica a termine dell’immersione ora empirica ora immaginifica nello schermo, travolgente e non-stop, è invece un’altra personale sintomatologia di un’imperitura pulsazione per il cinema. Chapeau, Roma.