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Festival di roma 2014 (gone girls and boys to) – Walruses walking home in black and white

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Roma è bella soprattutto quando è mondo genere. Tenuti fuori (al di là, al di sopra) i mostri fincheriani dis-innamorati nell’ingranaggio fatalmente letale glaciale sanguigno di carni spente e di vendette arse sul quotidiano – Gone Girl l’esperienza più vivificante del Festival –, godiamo di Mondo Genere. Quel Mondo genere nocturniano, che in quanto a pregio di sezione vince a man basse sull’ammosciato e datatissimo gotico italiano. Mondo genere schiera Nightcrawler, lucidissima disamina anticapitalista sul fascino degli spettri succhiasangue videotaker/maker; piazza un indiano di tre ore a sorpresa vincitore di categoria; soprattutto, lancia un bolide inaspettato grandguignolescamente irrefrenabile e tragicamente folle come Tusk di Kevin Smith, subito sul doppio podio dei suoi titoli più riusciti e instant cult insieme all’ovvio Clerks.

Un ibrido svarionato pluricorporeo smandrappato questo Tusk, con almeno due interpreti da assurdo premio Oscar, il prometeico shakespeariano Michael Parks, e Johnny Depp con finto doppio mento e una fissa per il trashfood. Insieme sfottono Nebraska (sospetto personale), da soli l’uno cerca mansueto l’altro, mentre l’altro – ovvero il tarantiniano Parks – vuol trasformare il povero gesticolante Justin Long in un tricheco, per espiare un peccato (originale?) a cui l’istinto di autoconservazione (dopotutto, animale) l’ha trascinato. Risate grottesche sgomente e disperatissime, un film che è saliscendi tra scalcinata black comedy con tempi comici stranianti per dilatazione, e horror respingente e disturbante che, veramente, The Human Centipede gli fa una pippa (ma su tutti i fronti, ché tale suddetto cult è veramente un filmetto da poco). Soltanto incredibile.

Mela marcia di un festival tutto tarallucci e vino – ovvero bocconcini di star e glamour sparso – è invece il Black and white del – per me fu – Mike Binder, fiction tv da canale di serie Z con moraletta che enuncia (la guerra ai) manicheismi fin da un titolo che potrebbe quasi far rimpiangere il bianco e nero comencinano – una cosa bruttissima con Fabio Volo cameriere per amore e Anna Bonaiuto che guardando dei bimbi afro ballare dice “certo che questi c’hanno il ritmo nel sangue”. Almeno lì si rideva. Invece questa pseudo legal dramedy Binder ce la serve su un piatto sgombrissimo di increspature che fa quasi tenerezza per il suo essere così naif – specie alla fine, quando vedi scorrere i titoli di coda tutti da una parte mentre dall’altra Kevin Costner prepara al ralenti il barbecue per la sua famiglia allargata di neri e il tutto termina sul freeze frame del volto innocente e così pucci e giudicante della bimbetta birichina. Ma il fatto è che la bruttezza supera di netto tale presunta naiveté, la regia è legnosamente lenta, gli stereotipi di grana grossa, Octavia Spencer rifà se stessa ancora e ancora che alla fine non ne puoi più del suo ammiccare con gli occhi a pesce palla, e quando il pubblico pagante in sala romana ride fragorosamente dinanzi alla centesima ripetizione di una gag sgonfissima, ti vien davvero il prurito di scappare a gambe levate e gettarti di testa nella fontana di Trevi, tanto è lì a due passi.

Non è cosa che ti rovina un festival, Black and white, sciattissimo fotoromanzino edificante volemosebbene-ma-anche-no, ti toglie giusto il mood della voglia di vivere. Meno male che arrivano poi folgorazioni bianche e nere che, davvero, spargono più colore di qualunque altra mazzetta casuale di film messi insieme in questo festival un po’ alla rinfusa un po’ no: A Girl Walks Home Alone at Night di una regista esordiente iraniana (Ana Lily Amirpour) scocca altissimo l’asticella mettendo a segno un horror western neoromantico appunto in b/n, mezzo videoclip dark sperimentale mezzo film muto d’evocazioni espressioniste mezza commedia vampiresca sclaviana (Dylan Dog-style) con colonna sonora spaccaculi. Dead City, provincia solitaria di freaks che si muovono a scoppio ritardato, tutti in-consapevoli morti viventi che all’improvviso, mentre i White Lies cantano funebri, si fermano ad ascoltare la meraviglia di un cuore che batte e chiudono gli occhi su un’estasi irripetibile, luce paralizzante e abbagliante che fa vibrare lo studiato, ipnotico stand-by scarnificato e robotico di un canovaccio essenziale quanto archetipico e imprescindibilmente ostinatamente cinematografico.

P.S. E poi: quanto è bella la non-anteprima (diciamo l’anticipazione di ore sull’uscita) di Guardiani della Galassia? Un bellissimo giocattolo che suona gli anni ’80, si è sgranocchiato Spielberg e Lucas per colazione, rimbalza la palla dell’autoironia degli Avengers, sogna il naturalismo di Miyazaki e Del Toro e zitto zitto dà un calcio nel sedere agli animali parlanti Disney (che guarda e approva) mettendogli un bazooka tra le zampe. Applausi.

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