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FLAGS OF OUR FATHERS
REGIA: Clint Eastwood
CAST: Ryan Philippe, Jesse Bradford, Adam Beach
SCENEGGIATURA: William Broyles Jr, Paul Haggis
ANNO: 2006
A cura di Pierre
Hombrebueno
INTRO: ESSERE O NON ESSERE
All’uscita dalla visione di Flags of our fathers, un mio amico,
fanatico Eastwoodiano anch’esso, mi fece questa
strana e anomala osservazione: “Insomma, questo è un film poco Eastwoodiano”. Non so da che pulpito di flash gli sia saltata in mente come affermazione, in quanto Flags of our fathers è puro e autentico Eastwood in ogni sua singola
inquadratura. C’è da dire però, che è quantomeno capibile tale
fuori-uscita, in quanto quest’opera
è altamente sfuggente, al contrario di film precedenti del Clint come Million Dollar Baby o
Gli Spietati (tanto per citare i più
famosi), non solo perché densamente ricca di suggestioni, personaggi, Storia,
storie, storie nelle storie, ma anche e soprattutto per il molteplice scavo
temporale e diegetico, fatto di sintagmi che si
sovrappongo, flashback, flashback nel flashback (uso più unico che raro nella
filmografia di Eastwood,
e questo è vero). Ma ancora una volta, per capire, apprezzare, amare appieno quest’opera, è necessario partire da lontano per
ricongiungersi con l’Autore e il percorso che ha fatto e sta continuando
a fare, in un’analisi filmografica dell’Eastwood
regista (e non solo), che in questa pellicola mette tutto ciò che lui è stato,
ma rileggendosi con ciò che è oggi e quello che sarà nel prossimo futuro, come
una sorta di opera(zione)
testamento: Flags of our fathers sta alla
filmografia di Clint Eastwood così
come Lady in the water e The Departed
stanno a quelli di M. Night Shyamalan e Martin Scorsese.
Un autore così grande, così vasto, così lucido, da potersi permettere ancora
una volta di de-costruire e ri-costruire il proprio Cinema, la propria maschera
autoriale, non solo tematicamente
(come già fece con Gli Spietati), ma
anche formalmente: certo, è ancora grande classicità
quella di Flags of our fathers, ma una classicità infarcita di consapevolezza
post-modernistica, in particolare tutte le scene di combattimento, molto più
vicine al caos immaginifico di Salvate il
soldato Ryan che ai classici film di guerra
americani di una volta: mai in Eastwood abbiamo visto così tanto virtuosismo tecnico, di
macchine da prese annegate nell’acqua insieme ai (piedi dei) suoi
soldati, di pioggie nere e grigie che cadono
direttamente sull’occhio cinematografico in maniera aggressiva, violenta,
di teste/braccia/gambe che volano, di soggettive aeree a richiamare il
cine-dinamismo quasi stile video-game. E’ un arricchimento del proprio
modus operandi con nuove espedienti,
tirando le corde di un lungo percorso autoriale che
si aggiorna manifestandosi sotto nuove sembianze, pur mantenendo la propria
distinzione, la propria personalità.
Non è proprio tutto ciò che chiediamo di un Autore che amiamo? Spingere ogni
volta la proprie barriere verso nuove sfide
artistiche, attraversare strade che non si sono mai battute prima, ma senza
perdere quel tocco e quella poetica che rende un autore unicamente sé stesso, quell’estetica e livello di significazioni che rende Clint Eastwood
unicamente Clint Eastwood?
E lui, anche stavolta, ha superato sé stesso.
L’(ANTI)EROE EASTWOODIANO
In fondo basterebbe il fulcro tematico principale di Flag of our fathers
per capire di trovarci perfettamente in sentieri (selvaggi) Eastwoodiani:
L’eroismo. Questa figura sempre deformata,
estremizzata, ruotata dall’autore fin dai tempi in cui interpretava i Senza-nome degli Spaghetti Western di Sergio Leone. Già allora si formava nel (non ancora) regista
quella voglia di esporre ed esplorare un eroismo controcorrente, appunto
dell’anti-eroismo, lo stesso che ritroveremo
nell’Ispettore Callaghan, vera icona di intere
generazioni, politicamente scorretto, cinico, cattivo. Poi, la morte (e
resurrezione) dell’anti-eroe (quindi di sé stessi) ne
Gli Spietati, dove Eastwood ci
espone chiaro e tondo la più sviluppata delle sue tematiche prevalse
degl’ultimi lavori: l’impossibilità di poter cambiare sé stessi e
la propria coscienza. Spazzatura siamo nati e
spazzatura moriremo. Una valenza che ritroviamo nuovamente in Flags of our fathers, soprattutto col personaggio dell’Indiano,
mai eroe nel proprio cuore e nella propria auto-analisi, né prima né dopo la
guerra, sfottuto come sempre, ripudiato da un’America (ancora) razzista
(ciò basterebbe a fare di questa pellicola un film non politically
correct, come hanno invece affermato alcuni).
E lo dice perfettamente la voice off finale:
“Forse non ci sono veri eroi”. Ci sono solo
persone come loro, andate in guerra non tanto per morire per una nazione, per
la patria, ma per i propri compagni, i valori e i forti legami che si sono formati.
Non sono “eroi” loro così come non lo era
Il Monco o Callaghan. Sono semplici persone che si
sono sporcate le mani col sangue, e che magari un giorno moriranno con in bocca il nome del proprio passato impossibile da
cancellare. Un passato gonfiato dalle menzogne, iper-considerazione
per qualcosa che non si sentivano affatto di meritare
(ricordiamo lo stesso Ispettore Callaghan tartassato
dai paparazzi e da gente che gli chiedeva l’autografo, che liquidava con
un semplice “Faccio solo il mio dovere”).
Non eroi dunque, ma semplici uomini, che Eastwood, finalmente, nel suo Cinema, trova modo di redimere dal loro abito, in quella
meravigliosa ed enfatizzata scena finale dove queste persone si denudano
momentaneamente della loro uniforme (simbolo dell’eroismo pronunciato dai
media, tantochè uno dei soldati dice di essersi
arruolato solo per potersi mettere quell’abito)
per purificarsi, immergersi fra le acque, ribattezzarsi e rinascere,
riconquistare la propria umanità.
Ancora una volta, è quel Mystic River che
ritorna. Quella sorgente in cui lavare via le proprie colpe.
Con la differenza che in Flags,
anche se per poco, quel gettarsi fra le acque diventa
l’atto più forte di serenità e gioia ritrovata.
TRA PASSATO, PRESENTE, E FUTURO
Accennavamo prima di un uso insolito del flash back, mai così denso e quasi
ossessivo in Eastwood
prima d’ora, così come l’uso della voice off a narrare, a
sovrapporre le narrazioni alle sub-narrazioni. Eppure
diventa una scelta consapevole, non solo perché il flash back e la voice off
sono i tipici espedienti del Cinema Classico per ritornare e focalizzare sul
passato (che sappiamo bene, in Eastwood è un passato che finisce sempre per ritornare a
galla), ma anche perché l’autore intende porre proprio un distacco netto
fra il suo sguardo di ieri e quello odierno.
Non è infatti la prima volta che vediamo Eastwood
affrontare un’opera Bellica, in quanto già nel 86’ girò Gunny, un film
che diventa fondamentale per capire meglio diverse scelte formali di Flags.
Le prime scene dei soldati protagonisti, per esempio, ci appaiono
immediatamente sotto quella luce d’immaturità esaltata identica a Gunny:
soldati che ancora non si rendono conto di ciò che stanno per affrontare, e che
quindi si gasano scherzando, esaltandosi, quasi come dei bambini prima di
andare al Luna Park. Eastwood,
in ciò, ritrova proprio sé stesso e i suoi errori commessi in gioventù, questo
propagandare per le armi, per la virilità maschile, conservatore, prontamente
decostruito in Flags
nel momento in cui esplodono le prime bombe.
Eastwood finalmente lo ammette: Gunny aveva
torto. Lui, come filmaker, aveva torto. Uccidere
delle persone non rende un uomo più virile, e non c’è festeggiamento ed
esaltazione che possa reggere il confronto con
l’orrore.
I soldati di Gunny
sono tornati a casa festeggiando a suon di trombe e bandiere americane
sventolate. La medesima accoglienza ai soldati di Flags, con la differenza che qui assumono quella indagine critica verso la violenza: finalmente
piangono, si ubriacano per esorcizzare i propri fantasmi. Una maturazione
finalmente consapevole in Eastwood anche nel territorio bellico (dopo quello western ne Gli
Spietati, perché si, come già affermato da Enrico Magrelli: Flags of our fathers
è per il Cinema bellico ciò che Gli
Spietati è stato per il Cinema Western), una liberazione dell’uomo,
come se tramite Flags,
proprio lui, Clint Eastwood, sia
stato il primo a (ri)trovare una redenzione di
esorcismo verso il proprio passato.
Per questo bisogna scavare indietro, oltre la diegesi,
il flashback. Per questo bisogna raccontare i fatti in prima
persona con la voice off, è necessario ricordarsi, rimodellarsi,
interrogarsi nel caos delle memorie sovrapposte, perché è l’unica via per
ritrovarsi nel presente, e di conseguenza nel futuro.
Ennesima lezione del Dio Eastwood.
Sia nel Cinema, che nella vita.
DECENTRAMENTO FOCALIZZANTE
Anche questo, cosa assai rara in Eastwood. Il Decentramento dei suoi personaggi, che
alcuni potrebbero vedere sbagliatamente come una
“negativa mancanza di caratterizzazione dei
protagonisti”. Infatti, anche quando il filmaker si è trovato a dirigere più personalità insieme
per un film corale (si pensi a Mystic River per esempio), la sua mano ha sempre avuto una
cura particolare, densissima, quasi alla shakespeare,
psicologica ed estetica, per ogni singolo di loro. Diventa dunque interessante
interrogarsi su questo decentramento, su questa apparente
debolezza di delineamento totalizzante dei soldati.
Eppure è presto detto: questa strada non può che
apparirci, ancora una volta, una scelta volutamente stilistica e adeguata alla
narrazione, data dalla maturità dell’Eastwood autore. Egli infatti, non vuole parlare di 1, 2, 3 soldati, di quelli
che hanno prettamente alzato la bandiera, ma vuole parlare di un mood
comune/comunitario, di un’insieme, un sentire comune. Perché
proprio come dicevamo prima, questi soldati non morivano tanto per una patria,
ma per i loro compagni. E’ la forza dell’unione, del
gruppo, dell’essere uniti che ancora una volta Eastwood vuole esporre: non può e
non deve permettersi di focalizzare solo su alcuni soldati, perché ciò svalorizzerebbe indirettamente gli altri della compagnia,
quindi egli ne parla nella loro totalità, nel loro essere gruppo, prima ancora
come singoli. Perché nella Guerra non c’è “il singolo”, ci
sono le masse, l’unione o la disunione di un plotone di combattimento, ed
Eastwood ne è perfettamente consapevole. E’ come se non solo 6,
ma tutti quei soldati (presentatoci in un piano-sequenza classicissimo
all’inizio) avessero alzato quella bandiera, certo, della nazione, ma
anche e soprattutto dell’unione, del portare a termine qualcosa tutti
insieme, della solidarietà, valore per cui vale la
pena morire e sacrificarsi. Da qui anche la scelta, giustissima, di non
prendere visi celebri di Hollywood nel cast (come già Spielberg in Munich, in fondo): non abbiamo il
soldato Tom Hanks o il
soldato George Clooney,
bensì semplici ragazzi che il più delle volte, vediamo
per la prima volta sui grandi schermi. E in ciò Eastwood mostra nuovamente anche
la sua maestria nella direzione degl’attori,
perché se forse era fin troppo facile tirare fuori da un Tim Robbins una recitazione che delineasse
l’uomo debole e avvolto dalla fragilità del suo passato in Mystic River, non lo
è altrettanto per un Adam Beach
sconosciuto.
Ma anche qui, Eastwood
ha estremamente vinto.
OUTRO: LA RIUSCITA DI UN CAPOLAVORO
Magnifico, imprendibile Clint Eastwood.
Un ringraziamento, ancora una volta, che a malapena riusciamo
a pronunciare per questo meraviglioso dono che ci è concesso.
Per una consapevolezza della propria strada e della propria illimitatezza. Per
aver trasformato ancora una volta le luci di Tom Stern in quel quel
cielo così oscuro, così avvolgente verso il nero a cui sempre ci ha risucchiati, stavolta però, dandoci quella spirale di
redenzione e di salvezza, di possibilità a ritornare indietro per riguardarci e
correggerci, seppur macchiati di grigio. Per quegl’orrori che sa mostrare (la caverna, con
il gore splatter così incisivo ormai frame delle
nostre memorie più brute), ma anche nascondere e celare, usare il fuori-campo,
perché il vero dramma della guerra non può nemmeno essere resa visiva ma solo
metabolizzata, percepita, inghiottita, in quella meravigliosa e immensa scena
di Ryan Philippe in
primissimo piano ed illuminato dalla torcia elettrica, che dopo aver osservato
l’orrore in silenzio (accompagnato solamente dalle note musicali composte
da Eastwood
stesso, come sempre soave, melodicamente avvolto dalla malinconia, essenziale),
si spegne nell’ombra, la stessa ombra che da sempre si cala sui
personaggi Eastwoodiani, da Mo Cuishle
a William Munny. Per questa cura estremamente
poetica di ogni singola scena, carica di significati epidermici (girare ogni
piccolo sintagma come fosse il più importante dell’intero film è la
regola vincitrice del Clint),
riuscendo a darci qualcosa di completamente nuovo per un genere ormai dato per
racchiuso nei suoi cliché. Quindi rivoluzionando nuovamente il Cinema,
portandolo fuori dalle solite barriere per inserirlo
in un contesto nuovamente concepito, come se Flags of our fathers
sia proprio il fiocco ideale che unisce due visioni apparentemente opposte: il
trip tecnico/tecnologico del Salvate il
soldato Ryan di Spielberg con la poetica
ultra-terrena de La sottile linea rossa
di Malick.
Il nero che ogni tanto, si tinge finalmente di azzurro. E
di meraviglia. Grazie Clint Eastwood!
(11/11/06)