THE FOUNTAIN

REGIA: Darren Aronofsky
CAST: Hugh Jackman, Rachel Weitz
SCENEGGIATURA: Darren Aronofsky
ANNO: 2006


A cura di Alessandro Tavola

VENEZIA 06’: IL TRITTICO D’AMORE (ETERNO) DI DARREN ARONOFSKY

Stupisce gli occhi e gli muscoli cardiaci il nuovo film di Darren Aronofsky, delude i fanatici della formalità antecedente e fa ridere gli obsoleti. Tutto ciò perché The fountain è un grande grido, d’estetica, d’amore e di morale, cupa ma gioiosa, immenso sfavillare del più forte romanticismo senza tempo.
Non più anime dannate d’un mondo dannato, non più morbose ricerche iperattive, qui i toni si fanno più soffusi e lievi, sussurrati, mantenendo l’estrema eleganza visiva e costruttiva dei precedenti ma rinnovandola in dolce ballata, fatta di tenui passaggi, di silenzi meditativi e disfatti, dell’armonizzazione più classica del sentimento, in evoluzioni narrative fatte di precisi e collimati ricami, tra bui affossamenti emotivi e coronamenti lirici.
Come in un De Palma o in un Lynch – tanto per rimanere al Lido – nessun momento, nessun oggetto, nessuna frase, nessuna tonalità, nessuno stacco di montaggio devono la propria esistenza e la propria posizione al caso o al piacere visivo fine a se stesso (seppur esso riecheggi in ogni frame). Tutto qui è architettato come un giallo dell’animo, del cuore, della mente, della vita, nella mera ma piacevolissima sottomissione (spett)attoriale, perché così come Kubrick era gelido torturatore paranoico, Aronofsky si autoproclama Guru, vittima anche lui della vita ma Dio della propria pellicola, lucido pusher d’immagini, chi è riuscito a prendere le proprie visioni per le corna fino a sintetizzarne una precisa ed elegante pillola cinematografica che non ammucchia ma ben cataloga, forte di un’evidente ricerca tra tinte e icone delle leggende e del mito visivo, tirando le inconsce somme, e sta a noi scegliere se ascoltarne le parole (disegnate) o deriderne i colori, le sfumature, i sussulti, gli sguardi dei protagonisti, la visività artigianale e grezza, il suo sentirsi crusader dei significati dell’essenza, dalle certezze quasi nette solo nella maniera in cui vengono esplicate, messe alla mercè delle masturbazioni del pubblico, in (a)morosa posizione mentale, fisica, filologica.

È un livido che sta diventando giallo, The fountain, nella visione di una presa coscienza del comune status esistenziale ormai somatizzato e accettato per ciò che è, un surgelato dei timori
Omni che Aronofsky vuole mettere in scena, pessimista speranzoso, farcendo il proprio personaggio (perché sostanzialmente si tratta di un One Man Show) di costanti paure legittime ma dalla risoluzione prossima in un «Ce l’ho sulla punta della lingua» dell’universale, dove Hugh Jackman si fa carico delle principali angosce radicali, quelle che trascendono il corpo, (anti)eroe solitario senza tempo il suo Tomas/Tom non è mai totalmente padrone in questo triplice univoco tunnel d’esperienza sensibile, dove ogni cosa è immersa di dubbio e oscurità, dove la certezza è pari a zero fino al compendio filmico finale, starlet di colori-suoni-liquidi bidimensionali-gridi d’antonomasia del catartico.

Lui e lei, in sintesi: nel 1500 regina e suo condottiero, oggi scrittrice leucemica e lui suo fidanzato ricercatore, nel 2500 lei reincarnazione vegetale e lui suo custode.
Anfetaminico Pi greco, sfilata di droghe odierne Requiem for a dream, The fountain è totalmente love-addicted, infatti fin da subito risulta pulsante la centralità di questa sottomissione/lotta/sacrificio come MANIFESTO D’AMORE, nella costruzione delle tre vicende, che corrono come film differenti e indipendenti ma indissolubilmente legati, nel reciproco citarsi, nel sottinteso e ammiccante ripetersi, emotivamente unisoni, specchio deformante e trasposizione reciproca, quasi a ricordarci che ogni storia (d’amore) è già stata raccontata e che, come sempre, è la forma a fare la differenza. La mia droga si chiama Julie, anzi Izzi (Rachel Weisz), Donna=Vita raffigurata come vero motore di ogni scelta, motivazione assoluta di sterzate improvvise, padrona dell’uomo, de(moni)a innegabile, splendente fonte di vita(lità), croce e delizia di ogni tempo, scopo ultimo e caldo bacino di salvezza, centro del mondo (di ognuno) ieri come oggi e come domani, in tutte le sue forme, (a-meta)fisiche. Nelle banalità e nelle grandi opere, nell’imperialista e nell’intimo, è assoluto come la lotta per la persona amata sia sempre quella più pura e sentita, un farsi carico dei suoi problemi alla ricerca del suo bene, un «Ucciderei (me stesso) per lei», dovesse accadere attraverso freddo combattere, azzardi frettolosi, veglie infinite; nella solitudine o a capo di un battaglione, tutto questo estremismo in The fountain si incarna, secco e lacrimante come un giorno d’inverno, nella sua fotografia mai serena e dal cupo animo affossato in Lei, in un danzante blackout delle futilità e love song fatta Cinema, come il più grande «Ti amo» che si possa dire.

Così come le tre venature partono come vertici di un triangolo per poi sgorgare nel suo centro, il filosofare romantico pulsa pian piano fino a diventare incessante battere, amplesso di schegge sceniche, motivazione del cuore che si fa combattimento della mente, vivissimo espandersi di tale sentimento verso l’idea di tempo quale nemico, quale vero male (ma essenziale) della vita, dove il protagonista vive solo per la propria Venere, in conflitto con Cronos, nel passare dei minuti, dei giorni, degli anni bastardo e infame, angoscia ultima di ogni persona, nella perpetua fobia dell’errore oltre che nella più proverbiale lotta contro il tempo. Speranza (apparentemente) inattuabile della quale Aronofsky fa arma contundente nel ripetersi degli attimi, del silenzio e dell’emotivamente accecante, della perdizione assuefatta di protagonista e spettatore, in una battaglia insicura contro l’arcano, che qui riesce ad essere pareggiato e poi battuto, nel compromesso dell’Eterno Ritorno degli avvenimenti e delle persone, ma anche nel supremo utopico giungere della Fine quale Nuova Nascita, dove Infinito e Amore, solitamente sfuggevoli e dannati, giubilano in un liquido rapporto di causa/effetto, dove il secondo pretende il primo e quest’ultimo ha significato solo se l’altro è presente, e si fanno conclusione unificata dei plot, triplice spasmo filmico che ha del 2001anno post-moderno.

Occhio e cuore nero raffinato di naturale verde scuro proprio di quella vita morente ma esalante, versante poi in sprazzi di giallo aureo che si fa prima illuminazione e poi eiaculazione, vegetale e cosmica, splendente di quel colore stellare, anzi saturnino, essendo, non a caso, Saturno l’altro nome del dio del tempo. Utilizzare (del pensiero) cinematografico dei valori e dei connotati visivi dell’antichità, tra Olimpo e Sacro Graal, fino (e soprattutto) al più vivo buddismo.
Sussurrano le sviolinate di Clint Mansell, mai sopra le righe, e tornano, in armonizzazione e consuetudini, connotati stilistici di un regista che apparentemente rinnega la schizzata follia (dell’anima) urbana dei previi, firmando la sua opera più classica, dove il muto vale tanto quanto dapprima era valso il caos, l’amore è per taglio delle inquadrature e per centralità puramente una droga, dove geometrie di costruzione e visuali a volo d’uccello inscatolano gli avvenimenti in un umido calore romantico, isolato da tutto ciò che sta fuori, con un rinnego della computer grafica che si fa romanticismo puro, nel film e dal film, nell’amore stesso per il Cinema, quello non esoso e modaiolo.
Cinema di puro spirito. Opera perpetua, terza trilogia nella trilogia, qui finalmente felice, che coerente riassume e completa le precedenti, nel più splendente, attuale, non bigotto post sul tempo e sull’amore che si possa avere.

 

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(20/09/06)

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