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FROM PARIS WITH LOVE
REGIA: Pierre Morel
SCENEGGIATURA: Adi Hasak
CAST: John Travolta, Jonathan Rhys Meyers, Kasia Smutniak
ANNO: 2010
A CURA DI SANDRO LOZZI
DOVE CREDI DI ESSERE, NELLA VITA REALE?
James Reese è quello che, magari con tono sarcasticamente sprezzante, si dice
“un uomo arrivato”. Ha un lavoro buono e stabile, abitudini buone
e stabili, e una situazione privata-sentimentale, manco a dirlo, ottima e
incrollabile. Ma in un film questa non è accettabile come situazione di
partenza, e infatti a Reese questa perfezione non basta, e allora si mette a
giocare a fare l’agente segreto. Si tratta in tutto e per tutto di un
gioco, un gioco da bambini: si eccita quando viene chiamato all’opera
come se fosse il suo turno di lanciare i dadi a monopoli, e si carica di
tensione fin quasi allo stremo per delle operazioni che comportano meno
rischi che taccheggiare cioccolatini al supermercato. Reese gioca a fare lo
spericolato per dare un senso alla sua vita perfetta.
Quando in quest’ultima irrompe Charlie Wax, il più classico dei
personaggi da buddy movies americani tanto efficaci quanto strafottenti e
incuranti dei regolamenti e dell’etichetta, finalmente Reese può
crescere davvero e diventare un uomo.
Niente di più semplice, ma la complessità non è caratteristica necessaria (né
tantomeno sufficiente) alla riuscita di un film. Ed anzi, la disinvolta
spontaneità è evidentemente il marchio di fabbrica di un giovane autore, Pierre Morel, che al suo terzo film è
già lì non ad affermarsi ma a confermarsi (dopo il frizzante Banlieue 13 e il potente Io vi troverò), uno che preferisce le
maniere spicciole come i personaggi delle proprie pellicole, e che come loro
riesce ad adottarle (le maniere spicciole) perché conosce e parla il
linguaggio del cinema, e sa quindi quando è il momento di tagliare corto e
qual è la scorciatoia da prendere.
L’uragano-Wax arriva e in pochi minuti-fotogrammi stravolge un mondo
fatto di diplomazia, scacchi e amore eterno, facendo terra bruciata per
lasciare spazio solo all’azione, che è forse l’unica dimensione
del cinema contemporaneo. Charlie Wax parla la lingua del cinema («Metti la
cera, togli la cera!», battuta che in originale raddoppia il senso passando
per il cognome del personaggio, ma che funziona perfettamente anche nella
versione doppiata poiché il referente principale non è il gioco di parole ma
proprio il richiamo ad un prodotto culturale di massa quale Karate Kid, configurazione di certo
cinema e dunque di un intero mondo, quello celebrato da Morel); tende al mondo del cinema – di quel determinato
cinema – e ad esso si relaziona («Ti ho offerto un’esibizione che
neanche Bruce Lee col suo kung-fu!
Non venirmi a dire che non sono meglio di Bruce
Lee!»); soprattutto, del cinema mostra di conoscere alla perfezione la
struttura, la materia stessa di cui è fatto e i suoi meccanismi: in questo
senso, la sequenza in cui quantifica dettagliatamente i secondi dopo cui far
cadere la bomba dalla finestra, per cogliere i fuggitivi nel momento esatto
in cui raggiungono l’auto, è più esplicita di un intero corso sul
linguaggio cinematografico. Wax mostra di possedere una perfetta cognizione
(grazie all’esperienza, ossia agli altri film) del montaggio del film di
cui egli stesso è un personaggio; sa esattamente quanti secondi impiegheranno
i gangster a scendere ogni rampa di scale e a percorrere l’atrio del
palazzo e il vialetto fino alla macchina (spazi e tempi, le materie prime del
cinema), perché è conscio della propria natura, è conscio di trovarsi in un
film (dove tutto è scritto, organizzato, misurato) e non nella vita reale.
Reese è spiazzato e può solo assistere, perché non possiede questa
consapevolezza, e tutto il film è esattamente questo: la storia di un becero
personaggio da film action che fa capire ad un personaggio con ambizioni di
profondità che per avere un senso basta avere coscienza della propria
identità.
Wax si pone insomma da sé non come persona ma come personaggio, sa di essere
una macchietta e ne va estremamente orgoglioso, non ha altri scopi che
ricoprire al meglio il proprio ruolo, non ha bisogno di sfuggire alla propria
identità – come fa Reese – per darsi un senso, anzi la sua
identità non fa che sfoggiarla in maniera urlata e sgargiante, quando –
lui sì, per la sua stessa professione – dovrebbe tenerla segreta.
Ma di tutto questo, seppur senza riuscire a metterlo a fuoco se non con
l’aiuto di Wax, Reese ha da sempre qualche vago sentore. Lo ha perché è
Jonathan Rhys-Meyers, e quattro anni
dopo Matchpoint si trova ancora ad
interrogarsi sulla propria natura di assassino, e il senso di deja vu
comincia a farlo vacillare. Fino a che Wax non gli fa capire che è normale, e
gli insegna ad accettare di buon grado di papparsi un parigino Royale con
formaggio ancora oltre tre lustri dopo Pulp fiction.
From Paris with love è dunque una
sorta di action pride, un’affermazione d’orgoglio del cinema
d’azione e di genere, un omaggio confezionato da uno spasimante e
inviato con dedica, ma anche una dedica che il cinema stesso fa ai suoi
amanti: da Parigi con amore, appunto.
(05/05/10)