FRONTIERS – AI CONFINI DELL’INFERNO di Xavier Gens
REGIA: Xavier Gens
SCENEGGIATURA: Xavier Gens
CAST: Karina Testa, Aurèlien Wilk, Patrick Ligardes
ANNO: 2007
POETICA DEL BRUTTO. OVVERO, SPASSIONATO ELOGIO DEL FILMACCIO
Per quale motivo l’operazione Frontiers colpisce nel segno, facendo uscire tutto sommato soddisfatti dalla sala, mentre pellicole esageratamente strombazzate come quelle della serie Hostel, deludono su tutti i fronti spettatore e critica? La risposta sta in un illuminante e pungente saggio di Ciro Ascione, intitolato BIDONI E FILMACCI Orribilmente, meravigliosamente brutti. Frontiers è il filmaccio che non ti tradisce: rozzo, violento e sgraziato quanto si vuole, ma comunque onesto nel propinarti nulla di più e poco di meno di quanto promesso in sede di cartellonistica e tam tam del web. Hostel e seguito, al contrario, sono l’emblema del bidone che, secondo definizione dello stesso Ascione, altro non è se non: “la rapina ai danni dello spettatore, la patacca spacciata per oro purissimo, la Fontana di Trevi rifilata al turista fesso”.
Xavier Gens si iscrive di diritto all’affollato club dei registi cresciuti a pane e horror seventies, dirigendo un movie che più B non si può, capace di affogare la mdp sotto il getto di vere e proprie cascate di emoglobina, ricorrendo ad un campionario di nefandezze talmente barbare da scioccare, in positivo, anche lo spettatore dallo stomaco meno delicato. Il campo d’azione, come di consueto, prevede il biblico recupero dei modelli firmati Tobe Hooper e Wes Craven, omaggi al dittico diretto da Rob Zombie, inattese citazioni colte (Coppola e Greenaway) e richiami a The Descent e The Blair Witch Project. Ingenuo fin che si vuole, sicuramente irritante e ben oltre i limiti della dermatite cinefila, quando decide di giocare con il superficiale messaggio che, tutto può sembrare tranne che socialmente convincente, Frontiers riesce comunque ad andare a bersaglio, sfruttando al meglio le sue trovate ultra gore, sostenute, udite udite, da una regia che non può non far stropicciare gli occhi per cura e bravura: grandangoli, carrelli, macchina da presa spesso e volentieri a spalla, si alternano coreografati da un montaggio in preda a spasmi e convulsioni, che ben si sposa con le tonalità grigio-blu della fotografia digitale, attraversate da improvvisi quanto affascinanti squarci d’ocra. Gens e la sua equipe sanno benissimo dove andare a parare: azzerano il fuori campo, riducono al minimo i fronzoli, e colpiscono duro e forte grazie ad una messa in scena grandguignolesca mai così truculenta dai tempi della rivoluzione cromatica di Blood Feast. Raramente, al cinema, si è visto così tanto e troppo e, se a Frontiers si possono e devono imputare basilari mancanze in fase di sceneggiatura, bisogna essere altrettanto onesti nel premiare la fantasia di un prodotto che rende ogni esecuzione e tortura diversa e allettante rispetto alla media del panorama horror contemporaneo. In un contesto del genere, dove l’ago della bilancia è interamente spostato sulla superficie visiva dello splatter, bisogna essere capaci di far soprassedere lo spettatore quando si trova di fronte alle lacune relative alla mancanza di profondità e caratterizzazione dei personaggi; Gens ci riesce grazie alla sua abilità dietro la macchina da presa, regalandoci, oltre ad almeno quattro/cinque sequenze da cardiopalma, il ricordo di una deliziosa famiglia cannibale, capitanata da un vecchio gerarca nazista e dalla ninfomania di due sfatte sorrelastre. La piacevole scoperta, quindi, che dietro la spacconeria blockbuster di Hitman si nascondeva l’anima di un regista vero, magari un po’ infantile nel trattare la fase di scrittura di un progetto, ma non per questo impreparato nelle soddisfare i bisogni del pubblico al quale si rivolge. Per dirla con le parole di Stephen King: “è birra, non champagne, ma ti ci puoi ubriacare lo stesso”.