GLI AMANTI DEL PONT-NEUF di Leos Carax

REGIA: Leos Carax
SCENEGGIATURA: Leos Carax
CAST: Denis Lavant, Juliette Binoche, Klaus-Michael Gruber
NAZIONALITÀ: Francia
 ANNO: 1991
TITOLO ORIGINALE: Les amants du Pont-Neuf

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L’occhio del regista, nascosto, celato in una macchina che passa e osserva in lontananza i due protagonisti, ombre di corpi immediatamente fantasmi che si trascinano volteggiando con fatica in una Parigi mai così sporca ed epidermica, odor di lercio esattamente come sono lerci questi due perdenti che vediamo delinearsi dall’oscurità di un vuoto, una strada che forse non porta da nessuna parte: altrove è buio. Denis Lavant, in un primo piano laterale, si struscia dolorosamente il volto sul pavimento, e in quell’atto già saltiamo dentro le nostre emotività e ci viene quasi da bestemmiare: pochi minuti dopo l’inizio del film, Leos Carax ci prende su per lo stomaco e ci strappa le budella. E’ scena immagine martirio iper-fisica, una turbolenza che aziona e attiva una sensazione che graffia e sprofonda oltre la superficie della nostra percezione, un misto di spaesamento narcotico e (com)passione, shock e ipnosi, immersione totale nel vissuto (morente) dello schermo, del film. Nessuno ha ancora detto una parola, e come potrebbe, cosa contano le parole nei lavori di Carax, che pensa – respira e concepisce il mondo per immagini, per aggressioni formali immediatamente spari di una forza espressiva che il cineasta francese possiede per dote naturale? Ricordiamocelo: Egli non possiede il genio, bensì è posseduto dal genio. Qualsiasi cosa tocca è irrimediabilmente ed incontrollatamente geniale. Geniale perché creatore di immagini capaci di rimandare sempre ad un’emozione più forte, ad un senso ed un sentirsi che provoca (con) estasi, non più tableaux vivants bensì cinéma vivant che respira immensità ad ogni fotogramma, quasi un ritorno all’urgenza di ricercare nuovamente quella specificità del cinema e del suo comporsi, e che in Carax trova risposta in una specie di neo-impressionismo che vede ancora nella fotogenia l’assoluto del mezzo filmico: la bellezza delle immagini, il loro brillare ed essere così incisivi, la (mancanza di) luce, il movimento (ovviamente: il correre), l’attimo, il trovarsi (trovarci) ed esserci, immortalati attraverso la macchina da presa. In questo film Carax diventa immenso pittore, capta istanti spaziali, dispiega l’istantaneo, i punti le linee le macchie le fotografie i fotogrammi le proiezioni le ombre. Non a caso l’opera è un continuo insistere sull’importanza del vedere, dell’avere gli occhi, del tenerli aperti per riuscire ad apprezzare, ad amare l’Arte (magnifica e fin troppo evocativa la scena nel Museo): perdere la vista equivarrebbe a morire. E lo è davvero, nel Cinema.

L’Autore francese porta avanti il discorso iniziato con Boy meets girl e Mauvais Sang, imprimendo su pellicola l’ambivalenza della sua ricerca: da una parte mettere in scena l’Amore (con tutto ciò che ne consegue), dall’altra, rileggere (resuscitare?) la Storia del Cinema nella sua rappresentazione più antologica e sfuggibilmente ricca in quanto troppo, troppo oltre e troppo tutto, combustione e profusione di immagini, e dunque, automaticamente, di teorie e cospirazioni, idee e memoria. Eppure, diversamente dalla struttura di Mauvais Sang, davvero troppo impazzita e totalmente sotto acido, Les amants du Pont-Neuf segue una narrazione più lineare e meno frammentata: Carax sembra soffermarsi a contemplare le sue scene, le dilata nel loro mostrarsi e farsi vivi sotto la magnifica fotografia di Jean-Yves Escoffier, e anche quando l’immagine è fissa, riesce ad esprimere dinamicità in quanto ogni suo atomo pare vibrare, facendosi movimento impercettibile, da decifrare sotto ogni dettaglio, ogni millimetro del quadro. Nelle scene più movimentate invece, il montaggio ci ricorda Abel Gance, quel suo anticiparsi già video-clip, ovvero musicale e sinfonico, il ritmo e il taglio come vortice di un climax, quello sbloccare l’immagine fissa in più attimi concepitivi, respiranti, vivi, totali.

Les amants du Pont-Neuf scorre con la dolcezza e la morbosità di una canzone rock dal sapor decadentista anni 90’, è concettualmente un eternal sunshine of the spotless mind, un’amarsi – cercare di dimenticarsi – amarsi – cercare di dimenticarsi – andare via – ritornare – sparire – resuscitare – amarsi ancora. My oh my. Anticipa immagini del Titanic di Cameron e in più punti ri-evoca l’immensità di Jean Vigo e L’Atalante, come in quella meravigliosa sequenza sotto’acqua dei due amanti che si cercano respingendosi e riabbracciandosi, ectoplasmi che s’incontrano in questa nuova dimensione onirica, galleggiando in una dolce via lattea cosmica dove l’ossigeno non è più necessario perché a darti respiro è l’Amore finalmente tra le tue braccia, lì, unico corpo e unico cuore. L’Amore che fugge, quello che in Mauvais Sang Denis Lavant inseguiva disperatamente correndo sotto le note di Modern love, è stato finalmente raggiunto; ora si può correre in due, ballare come le ultime persone del mondo, in disgrazia e perdenti, ma sempre insieme, lì, su un ponte uscito da un sogno, mentre i fuochi d’artificio colorano il cielo urlando rivoluzione e bohème.

Leos Carax anticipa ciò che ameremo profondamente di Wong Kar Wai, ovvero la capacità di trasmettere malinconia-dolcezza-poesia in ogni singolo quadro, raggiungendo la sua vetta di grandeur nelle scene dei festeggiamenti della Bastiglia: qui siamo probabilmente oltre la bellezza, in un territorio assolutamente indelebile, Storia del Cinema e di tutta la cultura visiva dell’umanità, oltre la creazione, la potenza dell’espressione, la massima e impensabile totalità dell’Arte e delle Arti, della figurazione. Denis Lavant e Juliette Binoche superano l’Actors Studio, esasperano la fisicità e il dettaglio meticoloso, il loro essere e sentirsi scorre tra lirismo disperato ed euforia amorosa come non l’abbiamo mai vista e percepita fin’ora, o in ogni caso mai così viva nel suo essere morta.

Carax esagera volutamente, sia col virtuosismo che con la potenza compositiva, il suo approccio con il creare Cinema è atteggiamento strafottente di superiorità e megalomania, esattamente come un Welles ma anche un Griffith e un Godard, gli Dei del Cinema che ci guardano dall’alto sputandoci in faccia perché loro sono l’essenza stessa della nostra philia verso la Settima Arte. Noi ci dobbiamo solo inchinare. Anche Leos Carax è uno di loro: un Dio.

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