GOMORRA

REGIA: Matteo Garrone
CAST: Toni Servillo, Gianfelice Imparato, Maria Nazionale
SCENEGGIATURA: Matteo Garrone, Roberto Saviano, Maurizio Braucci (..)
ANNO: 2008


A cura di Pierre Hombrebueno

ESTETICA ANESTETICA, PROVINCIA CRONICA

In Gomorra, l’oscura intimità dei film precedenti di Garrone è concentrata tutta (e quasi prevalentemente) nell’incipit. L’autore, nel corso della sua filmografia, aveva già dimostrato di essere il regista italiano più attento e ossessionato dalla morbosità fisica (si pensi, più in particolare, all’eloquenza funebre dei corpi de L’imbalsamatore e alla macabra anoressia di Primo amore); il suo è principalmente una Body Art modernista applicata al Cinema, e non a caso Gomorra si apre proprio su un corpo tinto blu elettrico evanescente, quasi stravagante nel suo essere apparentemente psichedelico, prima di quella fredda esecuzione seguita da inquadrature più fotografiche che cinematografiche, impantanate nella fissità di uno sguardo immobile sulla morte fisica tramutata arte stilizzata ed immediatamente da esposizione museale. Partono i titoli di testa e ci sembra di essere finiti in un film anni 70’ (rivisitata però dalla tendenza presente di riproporre certi font dai colori demodé, vedesi anche la locandina), e da lì in poi, fin dalle prime scene successive, qualcosa accade: Garrone, da creatore e contemplatore delle immagini, trasforma il proprio sguardo in quello di un (quasi)documentarista. Inquadra con cristallina semplicità effettiva, dove l’occhio della macchina da presa smette di guardare per concentrarsi sull’atto di mostrare. Certo, c’è la denuncia sociale che fece la carriera di autori come Francesco Rosi, ma a noi viene da pensare anche (e soprattutto) ad un certo metodo Zavattiniano del pedinamento, dove Garrone crea distacco fra sé e i personaggi, ma nel contempo ne resta incollato in ogni loro mossa, che sia in un asfissiante bosco in cerca di armi sepolte, che in piccoli buchi di periferia a spiare i big temuti ma idolatrati della malavita; il tutto senza esprimere nessun tipo di giudizio morale e senza enfatizzare neanche una scena, perché qua la forza (e anche il limite) sta nella pura e unica ripresa del vero e del crudo.
Non è affatto sbagliato affermare che Garrone compie a tutti gl’effetti una de-stilizzazione del proprio Cinema, forse perché per la prima volta si trova ad affrontare non più l’intima allucinazione di singoli potenziali personaggi, bensì un intero mondo e un sentirsi/vivere comune di una moltitudine. Vera novità nella filmografia dell’autore – ci troviamo davanti ad un film corale, e per di più in una coralità che tocca inevitabilmente argomenti socio-politici scottanti; allora, egli sceglie di sacrificare la sua cinematograficità (più virata all’artificio della costruzione) a favore di una messa in scena la cui presenza demiurgica di chi sta dietro la macchina da presa deve necessariamente auto-annullarsi, affinchè la priorità non ricada sulla propria personalità autoriale ma sul soggetto trattato. Rispetto le sue opere precedenti, più che una concezione Body Art, stavolta il regista sembra aver assimilato certi modus operandi fotografici di Brassai: un po’ scrittura automatica e un po’ objet trouvè, un po’ reportage e un po’ intensificatore della vita e del reale, in vagabondaggi fra angoli fangosi, violenza (sia fuori che dentro il campo), case di prostituzione e chi più ne ha ne emetta; i personaggi di Gomorra, nel loro essere appartati all’ombra, emergono per istanti immortalati con immagini mai manomessi né sottomessi alla macchina da presa. E’ innegabile che la loro sfuggevolezza crei difficoltà nel rapportarsi col pubblico, ma il tutto è necessario perché in quest’operazione non è tanto importante la costruzione di un personaggio, bensì l’idea che la loro stessa assenza di personalità esprime: La Camorra e la corruzione hanno annullato ogni possibile luce di creazione, i personaggi non possono più esistere in quanto trasformati in automi che hanno perso in partenza nella lotta contro il destino. Non figura nessuna introspezione, ma si evidenziano solamente i fatti nel loro succedere ed accadere. Nessuno, in questo film, ha cambiamenti caratteriali o psicologici, perchè essi sono nient’altro che manichini di un sistema, e questo sistema non concede storie perché già Storia (vivente, scorrente, impossibile da ignorare ma difficile da osservare). Non si può amare anche solo un personaggio di Gomorra, troppo inconsistenti nel loro non avere (più possibilità di) pensiero ma solo azione (che poi si trasforma nella vera denuncia dell’opera), stasi della tragica impermeabilità, del non essere e del non esistere: il vero protagonista di questo film non è né Toni Servillo né quel gruppo di attori non professionisti ingaggiati per strada, bensì il ritratto fantasma dell’immobilità e del dramma silenzioso che ha fatto delle urla di morte la colonna sonora macabra di questa pellicola. Gomorra è nero nichilista, e fa paura proprio come quei documentari apocalittici che di notte ci tolgono il fiato, per non dire il sonno.

Certo, non nascondiamo di preferire, causa prese di posizioni idealistiche sull’estetica, i precedenti lavori di Garrone. Non neghiamo che l’attesa è quella di rivederlo nuovamente alle prese con speculazioni più intime e personali, dove la libertà artistica non è modellata né dalla traccia tematica, né dalle aspettative sociali. Eppure è innegabile che quest’opera rappresenti un nuovo importante tassello nella filmografia di uno dei migliori registi che oggi abbiamo in Italia. Ci troviamo di fronte alla sua pellicola più ampia per mezzi e sceneggiatura, nonché al suo lavoro più denso e probabilmente più difficile. Allora poco importa se non sempre l’intreccio scorre con la dovuta fluidità, se nella parte centrale si avverte una pesantezza causata dal distacco che il regista ha deciso di attuare: E’ solamente la prova che Garrone è ormai così bravo e grande da essere un megalomane. Ama troppo il materiale che ha girato tanto da non riuscire a tagliarlo neanche quando dovrebbe.

 

(18/05/08)

HOME PAGE