IL GRANDE UNO ROSSO

REGIA
: Samuel Fuller
SCENEGGIATURA: Samuel Fuller
CAST: Lee Marvin, Mark Hamil, Robert Carradine, Bobby Di Cicco, Kelly Ward
ANNO: 1980



A cura di Luca Lombardini

 

“QUESTA E’ VITA FITTIZIA BASATA SU MORTE REALE”

Si apre con questo “epitaffio” la quart’ultima fatica dietro la macchina da presa di Samuel Fuller, più che un film di guerra il racconto delle innumerevoli battaglie sostenute all’interno dello stesso conflitto mondiale (il secondo), dalla prima divisione di fanteria americana. Quattro giovani tiratori, capitanati da un navigato sergente reduce dalla prima guerra mondiale, in grado di sopravvivere alle spedizioni nell’Africa del nord, in Italia, Francia, Belgio e Cecoslovacchia.
Il grande uno rosso è, per certi versi, l’opera più importante, rappresentativa e sentita dell’intera filmografia del cineasta americano, quella che più di altri war movies diretti da Fuller, riuscì nell’impresa di riassumere al meglio ricordi, incubi, messaggi e visioni, cari al suo ideatore.
Sostenuto da una voce narrante al limite dell’onnisciente, The big red one si trasforma, minuto dopo minuto, in un apologo visionario, una raffigurazione astratta, macabra e grottesca, resa lirica da uno stile secco simile al reportage giornalistico, che unisce gli stacchi netti, i movimenti di macchina rapidi, i dettagli e i primissimi piani, al contenuto estremamente poetico e umano del racconto.
Una testimonianza filmata quindi, dove è facile scorgere il ruolo autobiografico del personaggio di Zab, che Fuller imposta e dirige avendo ben impresse nella mente le immagini di morte e l’eco degli spari con i quali convisse in gioventù, quando, da cronista di nera, dovette sostituire la macchina da scrivere con il fucile, per vedersela contro i soldati della milizia hitleriana.
Non un film sull’eroismo dimostrato in battaglia quindi, né sul valore della vittoria ottenuta in essa, bensì una pellicola che grida a pieni polmoni l’importanza della sopravvivenza, l’unica medaglia di cui valga la pena fregiarsi nel momento in cui vengono firmati gli armistizi.
Ecco perché lo “zio Sam”, quando dovette prendere una decisione definitiva per la scelta del cast, non volle neanche saperne della candidatura del “Duca” John Wayne, e puntò diritto sulla maschera da soldato stanco, segnato dalle rughe e dal tempo, di Lee Marvin, guida e severa figura paterna per Vinci, Griff, Johnson e Zab, oltre che volto ideale e antieroico in grado di sorreggere al meglio il continuo chiudersi e aprirsi del cerchio della vita e della morte: simbologia che si palesa nella scena in cui, proprio il vecchio sergente, contribuisce a far venire alla luce il bambino di una giovane donna francese, allestendo “un’asettica” sala parto nel ventre di un carro armato, proprio all’ombra di quel crocifisso dove, anni prima, mise fine all’esistenza di un crucco, perché inconsapevole del fatto che la guerra fosse oramai terminata.
Ma Il grande uno rosso rappresenta, cinematograficamente parlando, anche il prezioso dono fatto da un grande regista alla storia di un genere, un film all’interno del quale confluiscono echi di opere precedenti (l’ospedale di fortuna di Tunisi simile alla pagoda di Corea in fiamme, l’istituto per malati di mente in Belgio come una versione a colori de Il corridoio della paura, con la sequenza della danza dei pazzi ripresa con un piglio quasi alla Kubrick) e momenti che diventeranno ben presto punti di riferimento per altri grandi registi (l’arrivo ad Omaha beach, omaggiato, citato, plagiato da Spielberg nella sequenza dello sbarco in Normandia in Salvate il soldato Ryan).
Un film su una guerra e sulle sue tante battaglie, sull’amicizia cameratistica, sul valore della dignità della vita umana, dove è possibile assistere al tentativo estremo di salvare la vita di un uomo che solo quattro ore prima era un nemico da uccidere (o assassinare?), dove ci si emoziona nel vedere l’elmetto di un vecchio sergente di fanteria adornato dai fiori freschi di una bambina. In parole povere un grande film: un film di Samuel Fuller.

 

(11/10/06)

 

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