HAPPY FEET
REGIA: George Miller
VOCI: Elijah Wood, Brittany Murphy, Nicole Kidman
SCENEGGIATURA: George Miller, Warren Coleman, Judy Morris (..)
ANNO: 2006
A cura di Pierre Hombrebueno
CLONAZIONE INFINITA TRA IL FREDDO
E IL GELO
Happy Feet
ha un solo difetto. Ma un difetto così grande-grandissimo-immenso
da riuscire a sommergere tutto il film – una mancanza estetica/tecnica
che irrimediabilmente congela l’apparato emotivo in chi segue queste
avventure antartiche: i pinguini (decine, centinaia, migliaia) sono tutti cazzutamente uguali.
Hanno la stessa forma, lo stesso viso, gli stessi occhi, e ovviamente la stessa
camminata. E purtroppo, questa forma standardizzata e uniformata non possiede
nemmeno quella caricatura tipicamente cartoonesca,
quasi come se il regista George Miller non
stia inseguendo una riflessione filmica – distorsione della realtà
– bensì uno specchio verosimigliante dell’aspetto fisico di questi
animali.
Ecco dunque spiegato il perché della scelta così ricca di doppiatori originali
scelti per il lavoro, nomi che vanno da Nicole Kidman a Hugh Jackman, passando per Elijah Wood e Robin Williams: l’unico modo per distinguere un pinguino
dall’altro è la loro voce. Non abbiamo una caratterizzazione fisica (né tantomeno psicologica a dire il vero, nemmeno sotto il
vetro dello stereotipo), e dunque per orientarci in chi è chi necessariamente
dobbiamo ricorrere alle orecchie. Ed in fondo, che cazzo
pretendere, questi pinguini non fanno che cantare gioiosamente e con stile, e
l’uso dei lunghissimi campi che non fa che disperdere ulteriormente un
volto dall’altro, un corpo, una singolarità che a parte il protagonista
non esiste né vuole esistere.
Non ero né fatto né addormentato, però la prima immagine esterna che viene in
mente è la bellissima locandina di Essere
John Malkovich di Spike Jonze, con
quella massa di persone private della loro personalità in quanto coperte da
maschere tutte uguali, la faccia di John Malkovich
che irradia come una parata in costume, in distesa infinita, virus bloccante,
epidermico, dove il singolo si riconosce nella collettività in un dissensato “uno per tutti e tutti per uno” per
il semplice motivo che ogni sintomo corrisponde alla stessa malattia, lo stesso
taglio e la stessa movenza. Happy Feet è esattamente così, una mascherata di personaggi
non più personaggi in quanto privati della propria autonomia dialettica,
divenuti solamente delle maschere indistinte, dove nessuno distingue più
nessuno da nessuno e per nessuno.
Una scelta formale che assume una propria significazione negativa nel momento
in cui sentiamo realmente una cospirazione di gelo durante la visione
dell’opera: un personaggio importante dev’essere
reso visivo, e non solamente uditivo. Ce lo ricorda saggiamente Papà Disney, che
scavando fra le nostre memorie ci riporta in mente i personaggi dei cartoni
animati ai quali eravamo (siamo) cazzutamente più
legati, da Abù di Aladdin a Timon
e Pumba del Re
Leone, tutti personaggi secondari ma che vengono percepiti sotto la stessa
linea protagonistica perché accomunati da una cosa:
una grande esposizione iconografica, iniezione venale che entra dritto
nell’immaginario (non solo) infantile per una carica personalizzata di un
proprio volto e un proprio modo di fare. Esseri toccabili, assimilabili,
viventi, potremmo quasi dire, eroi mitici di una collettività capace di
ritagliarsi un proprio spazio dal materiale filmico per la costruzione
stereotipale del proprio essere.
Quindi, il procedimento che attua Miller, questo sradicamento di riconoscibilità,
questo plasmare di anonimato e omoestesia, non solo
demistifica l’esperienza visiva, ma anche e soprattutto
l’esperienza sensitiva, l’amore e il pathos che uno spettatore
dovrebbe provare per un personaggio piuttosto che per un altro: è un vero e
proprio congelamento coreografico, asfissiante perché ne risulta sotto ogni
effetto una dilettantesca graphic design che contorce
dritta la percezione.
Peccato, perché Miller
gestisce il movimento animato in maniera estremamente versatile e virtuosistico, dimostrando grande capacità nella
manipolazione dello spazio immaginario e pixelizzato,
seguendo i suoi corpi in volo senza staccarsi mai nemmeno per un secondo, quasi
come dei pianisequenza volanti, volutamente esagerati,
adulti. Così come non manca lo humour, addirittura colmo di richiami sessuali,
come sempre a sottolineare il target non più solo “per bambini” a
cui i cartoon delle ultime generazioni stanno puntando.
Potremmo così arrivare al peggior Brian
De Palma o Johnnie To: grande
virtuosismo tecnico, pippe là e pippe
qua, goduria espositiva nel voler sorprendere con la flessibilità
dell’oggetto, che però non diventa mai soggetto e fonte di reale
transazione meta-fisica, per una disumanizzazione
estrema dell’umanità. Vuotezza nei personaggi.
Dunque, nella mente e nel cuore.
Belle canzoni eh. Belle voci, anche. Belle coreografie. Esattamente come un bel
concertone di Britney Spears dove però lei canta in playback e si confonde
nella folla dei suoi ballerini divenendo una sagoma d’ombra. Chissà che
fine ha fatto..
(19/12/06)