HARDWARE
REGIA: Richard
Stanley
CAST: Dylan McDermott, Stacey Travis, John Lynch
SCENEGGIATURA: Richard Stanley,
Michael Fallon
ANNO: 1990
A cura di Luca Lombardini
SPAGHETTI HARDCORE
Ci sono film che nascono sotto stelle ambigue,
trascorrono i primi anni dalla loro uscita nel dimenticatoio, e quelli
immediatamente successivi alla ricerca di una stabilità critica, rimbalzando
impazziti da un’etichetta all’altra: trash o cult ? cult o trash ?
La pellicola di Stanley
ne è esempio lampante. Nato dall’incontro tra un giovane regista,
cresciuto a bacon, video clip e narrativa cyberpunk
con gli ideatori di Shok,
storia illustrata da McManus
e O’Neill
per la rivista 2000 AD, esce nel ’91, viene
premiato nello stesso anno ad Avoriaz per i suoi
effetti speciali e poi sparisce nel nulla.
Riprenderlo oggi, vuol dire dover fare i conti con la sua essenza a metà strada
tra il cinema di maniera e apocalittiche previsioni future, ma il gioco vale la
candela. Certo, la trovata iniziale della tecnologia
che si rivolta contro i suoi ideatori puzza di muffa più del gorgonzola, ma una
volta superato questo primo ostacolo, l’anima dell’opera prima di Stanley si
manifesta in tutto il suo spessore. Hardware
fotografa quel che resta del pianeta terra dopo una non meglio definita
“Grande Guerra”: lande desolate in stile Ken il guerriero, rottami, piogge acide, ruggine e residuati
tecnologici. Uno spassionato omaggio al western spaghetti
dove tutto è stato convertito in hardware, è non c’è più la minima
traccia di software. Ma Hardware va oltre i paesaggi
post apocalittici e post umani, perché è presagio delle giocose faide
combattute in rete, dove non si può trattare sullo spazio virtuale che si ha a
disposizione, e dove ogni azione ha come scopo preciso l’eliminazione del
nemico immaginario. La trama, la sceneggiatura, il soggetto stesso diventano pretesto per mettere in scena lo scontro tra due
rivali: gli umani (Jill e Mo) contro Mark 13, “macchina della morte” ideata anni or
sono dall’esercito, che viene involontariamente rianimata da una
scultrice di ferraglia e, pur essendo stato a più riprese distrutto dalla
coppia si rianima, risorge e continua a giocare, e lo fa in puro stile video
ludico: si fa beffe del game over, perché ha già salvato la partita e può
riprendere dal punto in cui era stato sconfitto, ma intanto ha recuperato
energie e conosce le mosse dell’avversario.
Stilisticamente, il film di Stanley è un’affascinante
concentrato di sovversiva sci–fi : gli esterni desertici e
desolati assomigliano a quelli di Dune
e Mad Max, mentre gli interni rimandano al
caos organizzato di Brazil
e Blade Runner; il
montaggio convulso e la colonna sonora martellante (Iggy
Pop, Motorhead, Ministry e
Public Image) creano sequenze stranianti e mai
scontate, ma è grazie alla sua sottotraccia simbolica che la pellicola
raggiunge il suo dissacrante apogeo. Il nome del robot, Mark
13, rimanda al Vangelo secondo Marco, dove si legge che “la carne non
sarà risparmiata”, il protagonista si chiama Mo (forse “Mosè” ?), le doghe profumano di torta alle mele, quel
che resta del governo vieta la riproduzione, il cranio del robot si fregia
della bandiera americana e quando viene erroneamente
ristrutturato si ritrova con tanto di fallo perforante. Non solo, Mark 13, è il programma definitivo, un tecnologico
condensato di cavi, cip e alluminio programmato per estinguere in maniera
violenta quel che resta del genere umano, un’invincibile macchina di
morte che può essere sconfitta solo dall’acqua, elemento puro ma mai come
in questo caso infetto e difficilmente reperibile, lo stesso che può mandare in
tilt l’hardware del computer che ci controlla, ci spia, e allo stesso
tempo è depositario e custode delle nostre attività e dei nostri segreti.
(15/04/06)