HEDWIG: LA DIVA CON QUALCOSA IN PIU’

REGIA: John Cameron Mitchell
SCENEGGIATURA: John Cameron Mitchell
CAST: John Cameron Mitchell, Michael Pitt, Miriam Shor
ANNO: 2001


A cura di Pierre Hombrebueno

INTRO (SOUND ON)
Peter Travers del Rolling Stone lo definisce addirittura “Il miglior Rock Musical della Storia del Cinema”. Possiamo con rischio (e inutilità) dirci d’accordo, anzi, diciamo di più: Hedwig è uno dei film più belli e suggestivi degl’ultimi decenni, e John Cameron Mitchell è un regista da abbracciare/baciare/scopare/coccolare e tenere d’occhio se vogliamo un futuro per il Cinema (non solo) indipendente americano. Perché Hedwig non è superiore solo per la sua carica rock (in quello, forse, Velvet Goldmine di Haynes lo supera), né per l’ennesima resurrezione del kitsch trash alla Rocky Horror Picture Show, bensì per la sua potenza così evocativamente umana (filosofica, tendenzialmente formativa). Non che Mitchell abbia inventato (rivoluzionato) qualcosa, ma quel che fa lo fa in maniera così genuina e penetrante, semanticamente over-loaded di tematiche, simboli, spazi e territori culturali, dalla musica (della storia del) Rock alle figure mitiche di Platone, nonché gemiti socio-politiche-(trans)psicologiche.
Mitchell ci presenta un film (scenicamente) piccolo piccolo, ma denso e robusto di significazioni in ogni singola inquadratura, fino ai più piccoli particolari che vengono caricati di emancipazioni sensitive, arricchimento che solo il Cinema nella sua forma più pura riesce a comunicare, a provocare estasi. Sguardi telepatici (di persone e cose), questo legarsi, accordarsi con perfetta armonia collettiva, nonostante il caos illusorio, gli scambi sessuali (tipicamente da Arte moderna novecentesca), dove gli uomini si truccano di glitters e parrucche e le donne si mettono i baffi finti. E in fondo, Hedwig è proprio soprattutto questo: ricerca perfetta dell’armonia e della stabilità nel caos, sia nell’essere umano che nell’identità del Cinema stesso, in questi anni di sperimentalismo post-modernistico ricorrente.

POETICA KITSCH MALINCONICA
Accennavamo della figura centrale di questa ricerca armonica, di una propria identità davanti a sé stessi e all’occhio del mondo. I protagonisti vengono delineati da Mitchell proprio attraverso questa ruota, o più che protagonisti, forse dovremmo chiamarli “bi-protagonisti”, perché in quest’ opera tutto vive del doppio: Hansel/Hedwig. Come Uomo/Donna. Bontà/Cattiveria. Tutto/Niente. E la “angry inch”, quel “qualcosa in più” del titolo si riferisce proprio all’ambiguità non solo spirituale del protagonista, che dopo un’operazione ai genitali si ritrova fra le parti basse una via di mezzo tra un pene e una vagina, una specie di pollice sopra una spaccatura: si concretizza pienamente la binomia, il trovarsi sempre in mezzo al fiume e mai da nessuna parte delle sponde.
Da denotare innanzitutto la bravura del regista anche in versione attore protagonista: sguardi, auto.direzioni, smorfie tristi, immobilizzate nel tempo ed immortalate dalla macchina da presa in perfetto stile da film muto, oseremo definire addirittura espressionista. E le scenografie, così stilisticamente aggressive, fatte di colori caldi e linee distorte, non sono proprio una marca di fabbrica dell’espressionismo? Come se Hedwig, nonostante la sua identità musical(e), abbia voluto concedersi (necessariamente) anche a quell’altra musicalità non solo uditiva, ma anche (e soprattutto) visiva. Un espressionismo che si mescola con il kitsch e il surrealismo caro agl’avanguardisti, sottolineato soprattutto da un continuo dilatamento ed espropriamento della diegesi, scavante in numerosi flash-back, spesso sottoforma di ricordi / voli mentali trasposti dall’onirico, a voler ancora una volta evidenziare sulla figura di Hansel, sul suo essere così spezzato, sciolto, ambiguo. L’uso ricorrente della voice-off, poi, assume una valenza d’instabilità continuativa in questa psiche; più che seguire una linea logica infatti, questo sovraccaricare con la voce in terza persona ci appare più come un’insieme incontrollato di “flussi di coscienza”, fra l’altro meravigliosamente emozionanti in quanto non semplici “battute” o “riflessioni”, ma pura esposizione poetica, shakespeariana, trattato esistenziale diretto ed incisivo. Memorabile, per esempio, quello sulla ricerca dell’altra metà, un continuo chiedersi, porre domande destinate a trovare risposta un giorno lontano, forse.

DALLO SPAZIO DEL PALCOSCENICO ALLO SCHERMO
Più che ad una sequenza di video-clip musicali, Hedwig appare più come una carrellata di live performances, gigs, come già quel Chicago di Rob Marshall, guardacaso, anch’esso di derivazione ed estrapolazione teatrale. Ma così come sul palcoscenico teatrale, Hedwig, più che a teatro, somigliava più a un grande concerto rock, per la versione cinematografica l’anima è puramente la stessa. Si seguono i protagonisti in tour, tra i piccoli bar di paese, quasi in una sorta di sensoriale rock-documentaristico di quelli prodotti dalla Vh1.
Se questo può apparire un limite, Mitchell riesce invece a trasporre genialmente, a gestire gli spazi dandogli una valenza prettamente cinematografica, con tutte le ricchezze formali che ne consegue. Una possibilità di manutenzioni spaziali che avrebbe potuto mostrare solo col linguaggio cinematografico, allontanandosi immediatamente dal rischio più grande che corre un’opera tratto da uno spettacolo teatrale: essere, usare un modus operandi che sia più teatro che cinema, incapacitarsi del nuovo medium prescelto.
Un esempio lampante è la contrapposizione tra il protagonista e Tommy Gnosis: la band di Hedwig si esibisce in luoghi piccolissimi ma carichi di pienezza (Sugar Daddy, ma anche il casino di Angry Inch), colti con piani ristretti, quasi a volerci rinchiudere in un cubo, nel cubo del punk e del pogo, della vita vissuta e sbattuta, come a dirci che si, il protagonista non è celebre e famoso come Gnosis super-rockstar-fancazzaro, eppure la sua è un’Arte, una musica, una personalità densa e viva, seppur confusionaria.
Ecco invece la contrapposizione, Tommy che ci canta Wicked little town su un palco e una location enorme e dilatata, ma perennemente vuota e risucchiata dalle ombre, perché nonostante i suoi dischi d’oro-argento-bronzo, la sua Arte è puro artificio, priva d’identità, fredda e buia.
E ancora - spazi che si restringono sul protagonista, come l’ottima scena di Mitchell attore dentro un fornellino, colto in primissimo piano obliquo a delinearci la gabbia, la chiusura, la piccolezza del mondo in cui è cresciuto il piccolo Hansel // spazi che s’allargano in onirico, come nel finale di Angry Inch, quel Hedwig che comincia a lievitare in aria come Superman colto in contre-plongè, cercando di acchiappare un sogno, la vita che una volta gl’apparteneva. Espedienti che potevano essere realizzati solamente nella dimensione anti-teatrale, cinematografica. E Mitchell, il Cinema, dimostra di conoscerlo appieno.

DALLA MUSICA ALLA NARRAZIONE
In un genere dove le battute e i dialoghi, spesso, sono sostituite da canzoni, Hedwig, più che sorprendere, spiana. Mitchell sa, capisce il vantaggio di poter ricorrere alle Musiche al posto delle parole: oltre ad avere un’arma artistica e poetica in più, ha anche il dono dell’immediata esplicitazione. Così gli bastano i primi 4 minuti dell’opera sotto le note di Tear me down per farci capire e conoscere completamente il protagonista e la sua duplice valenza, 4 miseri minuti per raccontarci di una vita, un’esistenza spezzata che sarebbe sicuramente stata più complicata da dipingere con le semplici parole. Non solo, Mitchell ci inserisce in una sub-dimensione del suono che si fa immagine con l’uso di cartoni animati/ schemi/ lavagne illuminate. Ancora una volta, oltre a sottolineare la ricchezza dell’immaginario Hedwighiano, evidenzia anche la sua carica più favolistica, come nel caso di The origin of love, canzone volutamente simulata da Platone e Il simposio, esposto da Mitchell sottoforma di cartone animato grezzo ed infantile, a dirci che l’Amore è proprio la cosa più elementare di questo pianeta, e sappiamo bene che non c’è nulla di più elementare nell’immaginario cinematografico se non i disegni in movimento.
Ma per capire il forte legame tra la narrazione e la musica in questo film basterebbe anche solo quella scena di Tommy e Hedwig in composizione di The long grift: vediamo il personaggio di Michael Pitt che non azzecca una nota giusta a chitarra, ma nel momento in cui Hedwig/Mitchell gli dona il suo simbolo, quella croce sulla fronte, come per pura magia (la materia di cui è fatta questo film è proprio polvere magica), le note fluiscono dal cervello al cuore, con tanto di inserto di I will always love you in una delle scene più dolci e toccanti della pellicola: la musica e il cuore diventano complementari, un tutt’uno indispensabile.
Si sogna l’eternità di un legame, il desiderio finalmente esaudito di ritrovarsi completi. Prima dello spezzarsi delle catene e dell’addio che risuona fra le apologie.

OUTRO (SOUND OFF)
Dunque, in Hedwig abbiamo David Bowie, Sid Vicious, Platone, Sofocle (un continuo eco di “conosci te stesso”, ri-elaborato anche in chiave rock esistenzialistico con l’immenso Midnight Radio, inno degl’emarginati alla ricerca del proprio io), questo e quant’altro in questa meravigliosa opera prima che scorre (sovrac)carica e polivalente, ricchissima semantica per un film già per principio racchiuso fra 4 scatole, ma pronto ad esplodere ogni volta, ad interrogarsi, a stupirsi/stupirci di melodie ed immagini, lacrime e bevute euforiche.
Parrucche che verranno tolte, corpi nudi che camminano fra le strade senza più vergogna della propria anomalia e diversità percettiva, l’accettazione di sé stessi priva di ogni timore. Un invito. Una formazione. Una formalità. Una poesia. Vive l’amour. Vive la musique. Vive l’art. Vive le Cinema!

 

(20/11/06)

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