HIMIZU di Sion Sono – Venezia 2011
REGIA: Sion Sono
SCENEGGIATURA: Sion Sono
CAST: Shôta Sometani, Fumi Nikaidô, Tetsu Watanabe, Mitsuru Fukikoshi
ANNO: 2011
VENEZIA 2011: IN CONCORSO - PREMIO MASTROIANNI PER ATTORI EMERGENTI A SHOTA SOMETANI E FUMI NIKAUIDO
SUMIDA GANBARE!
«Ogni tanto anch’io lo penso: “vorrei essere come una talpa”, nascondermi sotto terra al riparo dal sole, da tutto e da tutti. Vivere una vita nella mediocrità, lontano da ogni eccesso, non certo felice, ma nemmeno infelice. Camminare guardando in basso, dormire senza sognare, scopare senza amare. Vorrei essere una talpa.»
Ripensando ad Himizu viene sempre in mente quella scena finale, quella corsa, quel grido di speranza sulle macerie di un’adolescenza distrutta, enunciazione contratta che riassume il sogno di normalità di un ragazzo e di un paese piegato dal dolore e dal senso di colpa. Quel “SUMIDA GANBARE!” eco e metafora del mille volte ripetuto “NIHON GANBARE!” (in malo modo traducibile come “Giappone, tieni duro!”), l’urlo della ricostruzione, l’urlo del dopo tsunami. Un incitamento che all’interno del discorso di Sion Sono assume un significato specifico e distinto: oltre le mosche nel latte riusciamo finalmente a riconoscere noi stessi, è la pietra dell’autoconsapevolezza, la luce all’uscita di una galleria, l’applauso conclusivo a Shinji Ikari (la talpa che esce dalla sua tana) nella ventiseiesima puntata di Neon Genesis Evangelion. E’ un inno alla vita di due quindicenni che non si sentono più soli.
Una frase ripetuta fino allo sfinimento.
In Himizu la parola è sacra, musicale, estetizzata, sussurrata, gridata, scritta, fotocopiata fino a cambiare colore. La parola è una poesia che viene letta e riletta (spesso anche con riferimenti intertestuali), fino a perdere il proprio significato originario, con continui slittamenti semantici. Un volantino pubblicitario che propone una romantica gita in barca si trasforma così nella struggente richiesta d’aiuto di una ragazza abbandonata e le risposte ad un professore diventano slogan esistenziali. La parola diviene un motivo suonato ad intervalli regolari, come la colonna sonora che si ripete sempre uguale a se stessa, ma in un continuo crescendo di diversità. La parola come veicolo estetico non subordinato alle immagini, un elemento peculiare di tutta la produzione del regista-poeta d’assalto Sion Sono (basti pensare alla reiterate citazioni bibliche in Love Exposure o alle battute teatrali del protagonista di Into the dream).
Un’altra parola in particolare compare molto più frequentemente rispetto ai precedenti lavori di Sono: la parola Giappone. Quasi a volerci suggerire che quel territorio lacerato dallo tsunami e minacciato dalle centrali nucleari sia uno dei protagonisti, un adolescente allo sbando, un ragazzo che non ha paura di nulla ma ha paura di se stesso.
Sumida disperato che barcolla nella città in cerca di una redenzione insanguinata, quello è il Giappone.
Viceversa lo strazio di una società mutilata, le panoramiche catastrofiche di villaggi distrutti, sono tutte metafore di quell’aprile di guerra che è l’adolescenza.
L’adolescenza è il Giappone ed il Giappone è l’adolescenza. Il film si presenta dunque come un’allegoria simmetrica, è una giostra di allusioni biunivoche che convivono alimentandosi reciprocamente.
Lo tsunami ha distrutto case, famiglie e sopratutto identità. Un gruppo di sopravvissuti si ritrova nei pressi di un barcaiolo, formano una comunità di emarginati, uomini-scatola regrediti all’età infantile. Persone incapaci di sfuggire all’incubo di un 11 marzo sempre presente, ma allo stesso tempo sempre fuori campo. Del tragico evento restano le ferite ancora aperte.
Ma Sono non si piange addosso, non gli interessa fare un documentario sui problemi della ricostruzione, né vuole colpirci alle spalle servendosi della catastrofe per commuoverci. Il film è tutt’altro. Dopo un incipit onirico si sposta nel territorio della commedia, poi sembra diventare uno yakuza movie, poi cinema di critica sociale, poi thriller, poi action, poi dramma. Sono come in Love Exposure si allontana da qualsiasi canone, creando un’opera borderline. Un’opera che vaga, proprio come il protagonista, alla ricerca della propria identità (filmica). Attraversa ogni genere, si perde e si ritrova.
E se in definitiva vi servisse una definizione, due parole per inquadrare il film dentro il catalogo di un videonoleggio, si tornerebbe a quel finale, a quella corsa verso la salvezza. E nella descrizione ci sarebbe scritto:
grido di speranza.
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