A HISTORY OF VIOLENCE*

REGIA: David Cronenberg
CAST: Viggo Mortensen, Maria Bello, Ed Harris
SCENEGGIATURA: Josh Olson
ANNO: 2005


A cura di Davide Ticchi

THE VIOLENT ZONE

Che per David Cronenberg la sceneggiatura di Josh Olson propostagli dalla New Line Cinema avesse assunto le sembianze di un’allettante proposta di svolta o ulteriore maturazione della propria concezione teorico-cinematografica, ce lo fanno comprendere proprio le quantità ma soprattutto le qualità di budget e cast a disposizione per la realizzazione del progetto A History of Violence. Per Cronenberg non è mai stato possibile attuare la produzione di un film con simili presupposti, a partire dalla massima libertà legata alle scelte registiche concesse dalla produzione, e nel contempo anche la possibilità di rivedere integralmente lo script insieme agli attori; anche se è norma per il regista instaurare rapporti aperti con il cast e addirittura confrontarsi riguardo alle scelte più importanti. Quindi A History of Violence viene da subito interpretato dal regista come un progetto stimolante a livello tematico, in quanto apparentabile per molti versi all’excursus retorico intrapreso nel corso della propria carriera e filmografia, ma anche – al tempo stesso – come una non trascurabile rivincita pecuniaria da parte del regista rispetto alle fatture dei progetti più o meno “indipendenti” realizzati finora. Dopo le difficoltà di un lavoro come Spider, soprattutto a livello di finanziamenti, era fondamentale poter tornare a dirigere un film che consentisse con serenità il raggiungimento di ambedue i fini sempre perseguiti dal regista: quello di raccontare le diverse fisionomie psichiche e carnali dell’uomo post-moderno e quello di permettersi un’esposizione stilistica personale e incondizionata, che però contempli nello stesso tempo una parallela evoluzione tematico-stilistica del modus operandi cronenberghiano. Risulta evidente, a prodotto finito, come la formula utilizzata questa volta dal maestro canadese differisca da quella cui ci aveva precedentemente abituato: notevolmente più raffinata ed elegante la confezione tecnica, ma anche (più semplicemente) di minor effetto e approfondimento psicologico il contenuto. Tale osservazione esula dal manifesto e oneroso impegno dimostrato dal regista in sede di messa in scena, la quale spicca soprattutto in virtù di un agile e al tempo stesso marziale impiego della macchina da presa, basti pensare all’incipit in carrellata o al frequente calcare su primi piani raggelanti.
Appurato che come opera formale ci si trova probabilmente al cospetto di valori assoluti, nonché di una dimostrazione di grandezza registica (qualità che Cronenberg comunque non si è mai prefissato di inseguire ufficialmente durante la sua lunga carriera), A History of Violence non colpisce tanto perché film di David Cronenberg “come comunemente lo si intende”, piuttosto in quanto opera di lucida ed emozionale raffigurazione e conseguente riflessione sulla violenza che ci circonda e di cui noi stessi siamo primi artefici inconsci.
Il tema, per certi versi, ufficialmente, “poco cronenberghiano”, diviene tale a pieno titolo in corso d’opera; perché la violenza, come in eXistenZ la percezione del virtuale/reale, sono inquadrati come oggetti universali e concreti, a noi vicini perché con noi essi interagiscono quotidianamente, senza per questo motivo entrare a far parte della sfera deformante della psico(pato)logia e di come questa si riesca a manifestare nella nuova carne dall’interno dei corpi. La metodologia utilizzata in A History of Violence è però diametralmente opposta, in quanto Cronenberg fa provenire l’agente deformante dall’esterno, la violenza cui il protagonista viene richiamato giunge da fuori, è forestiera e si insidia nel suo inconscio, permeandolo con la sostanza ineffabile e insopprimibile della colpa, e del passato. Tom Stall è infatti vittima del passato, riemerge come lui stesso ammette da “tre anni di peregrinare senza meta nel deserto”, alla ricerca di chi, quando, come e dove essere, e di che nome e moglie avere. Insidiatosi in una tranquilla e solitaria cittadina americana, vive serenamente con moglie e i due figli gestendo un caffè, fino a quando proprio all’interno del suo locale entrano due rapinatori per compiere una strage. Il buon padre di famiglia a quel punto reagisce uccidendo abilmente i due delinquenti, e divenendo ben presto eroe per i media che lo proclamano cittadino americano modello, ma Tom Stall o chi ha indossato le vesti dell’esemplare giustiziere viene visto in televisione da chi probabilmente può far tornare presente quel passato solo apparentemente rimosso di violenza. A Carl Fogarty e Richie Cusack, due pezzi grossi della mala organizzata, il compito di giustificare un vita violenta come vita, e uno stato di apparente felicità come una struttura così debole da crollare al primo avvertimento di pura e indiscreta violenza.
I ruoli degli spietati conduttori di violenza spettano a due cameo d’eccezione come Ed Harris e William Hurt, in due interpretazioni “eccessive” che profumano di magistrali tópoi abbondantemente frequentati da molto gangster cinema. Questi assurgono a chiaro medium di violenza, causa di travalicazione temporale tra ciò che distanzia Tom Stall dalla propria vera identita, rendendolo “altro da sé”, e ciò che in realtà è Tom Stall, l’incarnazione di un’idea trascendente di una violenza evanescente che sembra riuscire a filtrare in ogni spazio. Per questo, anche il solo apparentemente superficiale – e manieristico – episodio di sottomissione al bullismo scolastico da parte del primogenito Jack Stall, all’improvvisa reazione iper-violenta di questi, nel mettere in scena il fattore genetico come agente mediante il quale la violenza è primo elemento del DNA a essere trasmesso, restituisce l’intero film a una dimensione puramente “storica” e immanente al destino degli uomini. La violenza, altro tema caro al regista, è qualcosa di trasmissibile attraverso la fecondazione e la psiche umana, proprio con lo stesso metodo per cui veniva allargata la tribù degli Scanners attraverso la trasmissione ereditaria di facoltà telepatiche. E un po’ come lo scontro finale tra Darryl Revock e Cameron Vale attraverso la (sop)pressione telepatica una volta scopertisi fratelli in Scanners, qui fra Joey/Tom e il fratello Richie Cusack avviene uno scontro “ad armi pari” che segue un tragitto maggiormente “classico” rispetto a una più consueta visione allegorica “croneberghiana”, risolvendo l’azione in uno sparo che perfora il cranio, lasciando a terra un cadavere devastato quanto una testa fatta esplodere sotto forte pressione telepatica. L’interpretazione dell’atto di uccisione è nel frattempo cambiato, maturato o meno l’effetto non è dissimile né in una nuova stirpe di uomini-alieni, né in una sparatoria fra scagnozzi da fumetto. La morte è sempre la stessa e non esiste una tangibile percezione di questa, sembra volerci suggerire Croneberg, sia che nel 1996 girasse un film dove le strade erano un percorso interrotto di amplessi infecondi e morte orgasmica, sia che oggi queste siano esclusivo mezzo di ricongiungimento violento e mortuario, come accade dopo le ben quindici ore di traversata americana praticate da Stall/Cusack verso il proprio passato.
Insieme alla propria collaudata troupe che ormai lo accompagna da quasi trent’anni, David Cronenberg parte da un fumetto (l’omonima graphic novel di John Wagner illustrata da Vince Locke) per universalizzare ed esteriorizzare attraverso il cinema i mali umani e sociali che caratterizzano il tempo in cui viviamo. Prediligendo ironica linearità e apparente coerenza espositiva a unione e analisi disturbanti delle psicologie e delle realtà percettive, A History of Violence si traduce in un film contemporaneo, quantomai necessario alla consapevolizzazione inconscia della vera e oscura causa di violenza, e degli sconvolgenti e forse addirittura inspiegabili effetti della stessa violenza sulla psicologia umana.
I corpi di Viggo Mortensen e di Maria Bello, disperatamente avvinghiati sopra le scale, sono di splendore incommensurabile, come del resto le rispettive interpretazioni e le musiche d’atmosfera composte da Howard Shore.

*Caso eccezionale, solo e unicamente per l’amato Cronenberg, questa recensione nasce da un approccio con gli amici di cinemavvenire.it, dove è pubblicato il medesimo articolo.

(21/12/05)

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