HONG KONG EXPRESS

REGIA: Wong Kar Wai
CAST: Tony Leung, Takeshi Kaneshiro, Faye Wong
SCENEGGIATURA: Wong Kar Wai
ANNO 1994


A cura di Andrea Magagnato & Pierre Hombrebueno

(E)MOZIONI E LUCI (D'AMORE)

In una Hong Kong notturna ed instabile nuovi legami curano il dolore di amori passati.
Mentre nel mondo materiale tutto scorre, tutto è perennemente in transizione, la mente si rivela incapace di lasciar scadere completamente i sentimenti anche se il ricambio, la rigenerazione di questi appare inevitabile.
Hong Kong Express raccoglie frammenti fleshati di quattro esistenze in due storie distinte, due coppie il cui percorso si sfiorerà solo per pochi secondi in una staffetta virtuale che ci ricorda come in realtà siamo tutti legati alle stesse sensazioni, siamo tutti in cerca dello stesso forte sentimento che sia per poche ore soltanto o per lunghi anni.
Siamo tutto sommato vicini, dipendenti gl’uni dagl’altri. Costretti a camminare in eterno per vie rette e non parallele, destinati a intersecarci in un punto generico, e poi proseguire.
Forse, dopo poche ore, ci si accorgerà che quella tangente non era retta ma tornerà a toccarci in futuro, magari in maniera indelebile. Coincidenze.
Non è dato sapere se un sentimento possa conservarsi intatto in eterno ma per Wong kar-wai pare proprio di no. Nei primi 40 minuti sembra sentenziare: “tutto scade e ciò che rimane alla mente, forse, è solo il ricordo.”
Il legame successivo tra l’agente 663 e A-Fei è invece più complesso, sfaccettato, aperto anche se la messinscena prosegue lineare, coerente tra inquadrature impallate, cariche di una certa discrezione, movimenti traballanti, rallentati, frammentati, linee oblique, montaggio visibile, ricerca sistematica di dettagli, sguardi, fotografia morbida e vibrante.
Tutto ci appare mutevole, provvisorio destrutturato tranne la musica, che con i suoi tre quattro splendidi brani, ritorna sempre come un tormentone e si fa protagonista soprattutto nella seconda parte nascendo come extradiegetica e diventando poi diegetica, legandosi ai ricordi e alle esperienze dei protagonisti oltre che ai nostri.
Un aspetto che accomuna evidentemente i due episodi è il legame stretto tra ciò che è materiale e ciò che non lo è. Nella prima storia come nella seconda la conoscenza di una persona appare impossibile poiché legata ad un mondo di oggetti finiti in continuo cambiamento. Le persone cambiano interiormente così come cambiano i loro gusti, sapori del mondo esterno.
La sostituzione di ciò che è obsoleto, usato, diviene rito indispensabile ad una purificazione interiore.
Allo stesso modo A-Wu correndo tenterà invano di rigenerare la mente liberando il corpo da tutti i liquidi in eccesso: facendo “piangere il corpo” non ci sarà più acqua per le lacrime.
Non ci si può fermare, fossilizzare in amore… è un flusso in continuo divenire.
Hong Kong Express è uno di quei film ricchissimi oltre che indiscutibilmente emozionanti.

(A.M)

IL CINEMA ATTRAVERSO UN CALEIDOSCOPIO

Film di (fasci di) luce e ombra, di sigarette e neon, di solitudini e solitudine, Hong Kong Express è quanto di meglio il Cinema post-moderno abbia mai prodotto. Post-moderno seppur (post)classico se inteso nel senso godardiano del termine. Wong Kar Wai deve tanto, tantissimo a Godard, in particolare l’uso del jump cut, quel montaggio grammaticamente (classicamente) sbagliato che tra le mani di un genio diventa invece la (prima) distruzione e (poi) creazione di un nuovo linguaggio filmico ed espressivo.
Questo stile ripreso dalla nouvelle vague si prefigura alla perfezione per l’opera di Kar Wai, sottolineandone di fatto l’appartenenza alla nuova generazione dei sub-urbani, degl’amanti della notte (quasi tutto Hong Kong Express è girato di notte, mentre di mattina Kar Wai dormiva o riscriveva la sceneggiatura) e della macchina a spalla, delle inquadrature scelte apparentemente(?) a caso senza considerazioni geometriche e spaziali. E non ci meraviglieremmo davvero se queste inquadrature siano veramente scelte a caso, in quanto la casualità (il fatalismo) è uno dei temi centrali della pellicola, come a dirci, sarà quel che sarà, o ancora un modo di farci intendere che il destino non c’appartiene, e che la vita non è che uno strano ciclo (in)legato di eventi strani e con un certo gusto di malizia.
Possiamo effettivamente vedere Hong Kong Express come un Godard stilistico che si mischia con i turbamenti esistenziali dei primi Truffaut e Rohmer. L’effetto estetico ed emotivo è quello di un film spontaneo, e come direbbe un anti-nouvelle-vaghiano, “dilettantistico”, immaturo. E queste sono proprio le situazioni in cui amo usare una frase tanto trita e ri-trita da critici-snob: Hong Kong Express è perfetta nella sua imperfezione. Con un plasmarsi continuo di vita ed esistenza, di ombre e specchi, come se il Cinema fosse visto attraverso un caleidoscopio di scintille e un continuo bombardamento emotivo grazie anche ai dialoghi che non pone delle domande, ma pone LE domande, di quelle che non fanno dormire l’uomo dall’alba dell’illuminismo, e a cui nemmeno Kar Wai osa rispondere esplicitamente, tanto da creare 4 personaggi che ognuno a modo loro incarnano una diversa filosofia d’esistenza, così caricaturali ma anche toccabili in quanto reali, così retrò nella loro eccentrica visione (filtrata) della vita: Wong Kar Wai alza la bandiera della nouvelle vague, mentre Takeshi Kaneshiro e Tony Leung diventano i nostri nuovi Jean-Pierre Leaud et Jean Paul Belmondo reincarnati nel post-moderno fatto di materialismo e luci al neon.
L’agente 223 è la solitudine, l’uomo abbandonato dalla propria amata. Conta i numeri sulle dita comprando barattoli di ananas e telefonando ai suoi vecchi compagni delle elementari.
La donna bionda è l’eccentrica, la rockstar. Gira sempre in cappotto e occhiali da sole, perché “non si sa mai se pioverà o uscirà fuori il sole”, a sottolinearci ancora una volta la casualità tanto evidenziata da Kar Wai, e un tentativo di esorcizzarla in qualche modo, di arrivare preparati all’impreparazione. Non abbiamo una motivazione esplicita del perché gira con una parrucca bionda, forse per non farsi riconoscere, o chissà, magari per imitare quelle grandi dive di Hollywood..
L’agente 663 è apparentemente quello più coi piedi per terra, nonostante attraverso il suo personaggio Kar Wai trovi modo di accentuare la valenza antropomorfica del suo (primo) Cinema: gl’oggetti si animano come esseri viventi, si sporcano e piangono proprio come il protagonista. Quindi, la solitudine in grado di animare il non-animato, come una sub-realtà (ancora una volta, il caleidoscopio) del Cinema che si fa concreto, che si fa tangibile, oltre che fleshante attraverso una percezione visiva, perché l’opera di Kar-Wai è un continuo viaggiare tra onirico/visione (Cinema) e razionalità/tangenza (Realtà), sospeso (o rifugiato) nel buio di questi cieli che stentano ad aprirsi.
Infine, c’è l’anti-tesi, ovvero A-Fei, la sognatrice, colei che vive totalmente nel mondo dell’idealizzazione e dei sogni. Eccellente in questo senso la scelta delle 2 canzoni che la contraddistinguono: Dreams dei Cranberries rifatta cinese, e California Dreaming dei Mamas & Papas, e proprio sotto Dreams (Sogni) avremo la scena più emblematica e bellissima del film:
Rallentatore. Lui mentre beve il caffè. Lei intrippata mentre lo osserva. E tutto il contorno velocizzato. In quello stesso momento capiamo che lei s’è innamorata. E il tempo sembra fermarsi per loro due, il tempo, una volta tanto, sembra afferrabile nel volersi congiungere all’assoluto e all’eternità, mentre il resto del mondo, i babbani non innamorati, scorrono come ombre frettolose di nascondersi dietro il primo specchio. Solo qualche anno più tardi Tim Burton ce l’avrebbe reso esplicito in Big Fish: “Quando ti innamori, il tempo si ferma”.
Una sorta di freeze-frame rifatto video-clip, indelebile come è indelebile il film di Kar Wai, capolavoro di sensibilità che scorre come un Cinema venale capace di assorbire ed ipnotizzare l’inconscio, tantochè California dreaming è inno, così come Hong Kong Express è la vera bandiera di tutto il Cinema degl’anni 90’ e dell’uomo ai piedi del 21° secolo, assorto e assorbito da queste immagini caleidoscopiche di una sub-realtà fatta di ragazzi e ragazze imparruccate, nascoste e in bilico tra multi-dimensioni percettive. Tutto ciò mi(ci) travolge, come fossi(mo) stelle vaganti dell’universo in fondo intrecciati ed in fondo assimilati in un buco nero evitabile nel momento stesso in cui ci si rende conto che stare bene è possibile, o almeno, sognare di stare bene. Così non sapremo più se la scena finale del film sia effettivamente pura realtà o solamente una proiezione ideale di un conseguimento emotivo, ma quel che è certo è che va vissuta come possibilità di essere, e non solamente apparire. Un’idea di Cinema e un fare Cinema che in ogni singolo quadro riesce ad esprimere malinconia, dolcezza, e poesia. E tutto questo va amato.

(P.H)

(15/02/06)

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