HOSTEL: PART II

REGIA: Eli Roth
SCENEGGIATURA: Eli Roth
CAST: Lauren German, Roger Bart, Heather Matarazzo
ANNO: 2007


A cura di Sandro Lozzi

FREAKS DA XXI SECOLO

Hostel part II è un film diverso dal primo capitolo uscito l’anno scorso, e per questo – come è già accaduto poche settimane or sono con Spiderman 3 – presenta una certa difficoltà nella fruizione data non tanto dalla frustrazione delle aspettative (costruite conoscendo il primo episodio) quanto dalla loro inutilità ai fini del film Hostel part II. In soldoni, ci si attende qualcosa che Eli Roth tralascia non per giocare sulle aspettative ma perché gli interessa proprio fare e parlare d’altro.
E questo secondo capitolo è diverso dal primo non tanto per quello che dice, ma anche e soprattutto per il modo in cui lo dice. Se Hostel scavava più a fondo nel campo della semantica, andando a ricercare una forma allegorica chiusa che invitasse a pensare senza troppo suggerire, part II è decisamente più esplicito, più discorsivo e aperto, meno allegorico fino a tratti in cui non è più tale per farsi discorso filmato, vera e propria critica sociale urlata con determinazione senza troppi fronzoli e giri di immagini. Volendo scomodare un nome grosso anzi enorme – ma senza proporre improbabili paragoni – potrei azzardare a dire che se il primo ha qualcosa in comunque con la romeriana Notte dei morti viventi, il secondo si comporta invece più come Zombi. Non un difetto (né un pregio) dunque, solo un diverso modo di parlare attraverso la materia del film; in uno c’è insomma da ragionarci su, nell’altro c’è da ascoltare e comprendere, ed eventualmente condividere. Sta poi ad ognuno scegliere eventualmente quale delle due strade preferire, ma è operazione di ben poco interesse al di fuori appunto della sensibilità del singolo.
Se dunque, come ho detto, Hostel 2 è più esplicito nel modo di parlare, è altresì meno sfacciato nel mostrare: meno sguardi e punti di riferimento, meno splatter e gore, meno tette e culi (tanto per essere chiaro, e per restare fedele allo stereotipo italico messo in scena nelle sequenze sul treno). O almeno, il film dà questa impressione, forse per lo stesso meccanismo di cui parlavo all’inizio: trattandosi del seguito di un film entrato nell’immaginario collettivo per il sangue e le tette, ci si attendono novanta minuti di torture (per i malcapitati dell’ostello, e per i nostri occhi) e siparietti erotici (tanto più per la presenza di un’icona come Edwige Fenech) in quantità. E invece, dopo il più classico degli incipit fulminanti, il film ricostruisce da capo l’attesa rielaborando tutta la strategia delle situazioni che portano verso l’ostello slovacco e aprono la strada all’ecatombe finale. Il più grosso limite della pellicola sta forse proprio in questa fase, in un’attesa troppo stirata che fa funzionare il film come una enorme sequenza da film pornografico (cfr. Eco U., Come riconoscere un film porno, in Il secondo diario minimo, Milano 1992) in cui tutta l’attenzione dello spettatore è in stasi sul binario principale verso il clou dell’azione, e non ci tiene troppo a farsi portare a spasso in stradine laterali e secondarie. In parole povere, anche non conoscendo il primo Hostel, l’attesa creata con le sequenze iniziali è troppa per reggere tutta la costruzione della vicenda, così è più che legittimo che allo spettatore venga voglia di “saltare qualche rigo”.
Ed è un limite abbastanza pesante, poiché è proprio in un continuum tra la fase “di attesa” e le scene finali che viene fuori il nocciolo della questione posta questa volta da Roth: parlo della sottotraccia della vicenda di Todd e Stuart, dall’asta a suon di bigliettoni via cellulare fino alla trasformazione da carnefici in vittime. Il cambiamento grosso rispetto al primo capitolo sta proprio nello spostare l’attenzione dai torturati ai torturatori, ma il discorso su questi rischia di essere perso almeno in parte mentre si sbuffa in attesa del pulp (come ci ricorda la citazione-omaggio-ruffianeria di Pulp fiction su uno schermo televisivo).
Se il terzetto delle protagoniste è un classico gruppo da slasher movie (la bruttina intellettuale, la ninfomane spigliata, e la “cassiera”, la saggia del gruppo che fa da collante tra i vari elementi) e come tale viene trattato (indovinate quale si salverà), l’attenzione va rivolta, come dicevo, alle figure dei torturatori. Se lo sferzante cameo di Ruggero Deodato va preso esclusivamente come tale (accreditato come The Italian Cannibal, sembra più un soprannome affettuoso che il nome di un personaggio) e come una scenetta già cult tutta da ridere, è evidente che gli altri membri del “club” del bracco non sono più gli anonimi sadici incrociati da Paxton nel primo film, ma diventano figure a tutto tondo il cui retroterra costituisce il bersaglio primario delle raffiche di Eli Roth. Come già in altre celebri pellicole dell’ultimo decennio quali Eyes wide shut (di cui si sente il sapore nella sequenza, a lume di candele, dell’esecuzione di Lorna) o American beauty, Hostel 2 mette in scena la frustrazione di quella che potremmo chiamare medio(e)alta borghesia. La figura chiave del film è Stuart, il più classico dei padri di famiglia con lavoro da ufficio, cagnolino (al guinzaglio sia della moglie che del “fraterno amico” Todd) che non abbaia ma alla fine riesce a decidere di mordere quando è ormai troppo tardi, al contrario proprio di Todd che dopo aver abbaiato per tutto il film si rifiuta di mordere quando si trova faccia a faccia con la preda, ritrattazione che naturalmente gli costerà cara.

Uomo che abbaia non morde, dunque (e in entrambi i casi ci rimette). Ma anche, in browninghiana memoria, i veri mostri (di violento sadismo) sono i “normali”.
E i bambini? A loro non resta che giocare e divertirsi, fregandosene di quegli idioti degli adulti.

 

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(03/07/07)

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