I DON’T WANT TO SLEEP ALONE
REGIA: Tsai Ming-Liang
CAST: Chen Shiang-Chyi, Lee Kang-Sheng, Norman Atun
SCENEGGIATURA: Tsai Ming-Liang
ANNO: 2006
A cura di Davide Ticchi
VENEZIA 06’: VIVE
L’IMAGE
Un’esposizione d’immagini, quadri, pitture
ed affreschi. Una parata di arabeschi permette
all’astante la percezione della mobilità del quadro. Questi
s’inseriscono dentro la fissità dell’effige cinematografica, con le
sembianze di una farfalla, o di un logoro materasso che galleggia
sull’acqua putrida di una grossa pozza, situata dentro lo scheletro di un
palazzo abbandonato. Enorme, pesantissimo, come sempre. La pesantezza di cui
sono caricati anche solo questi due iperbolici elementi scenici dichiara in parte l’impostazione allegorica del
settimo film del regista malese, tornato in patria a girare per la prima volta
un suo film, e cioè che sia per l’essere vivente più piccolo, sia per
quello inanimato più immane non vi è via di fuga, un fuso orario ad attendere. La visione ancor più oscurata dell’uomo, porta Tsai a
rappresentare una storia in cui esso è trattenuto da un suo simile relegato al
letto della malattia. Se la farfalla si poggia
sul suo corpo e sorprende, la farfalla cade in acqua o sbatte sul cemento e
neutralizza l’incanto. Così la sua natura, come quella del palazzo, del
malato e del nuovo sguardo/intelletto del regista murano i propri piedi nella
realtà che abitano, senza il desiderio di proiettarsi in qualche nuovo lido
raggiungibile con un semplice: “Che ora è laggiù?” al telefono.
D’incanto diverso si sta parlando da quello di The Hole, Che ora è laggiù? ed
Il gusto dell’anguria, privo
dei siparietti musicali generalmente complementari ad una narrazione qui quasi
del tutto assente, elisa. Che Tsai per Hey yanquan abbia lavorato di
sottrazione parrebbe ovvio ma non del tutto esatto, la sua è una rinuncia e stigmatizzazione della narrativa come "inutile",
favorendo con la sua mancanza uno squilibro compensato dalla eccessiva,
sovrabbondante presenza dell'immagine. Un’apologia di essa che riesce
compiutamente anche questa volta a percuotere lo spettatore con la sua
durissima e purissima natura visiva, originale. Così, come sul finale di Che ora è laggiù? ondeggiava
la valigia di Shiang-Chyi attraversando lo schermo
sulle acque di un lago parigino, oggi è un materasso con sopra poggiati due e
uomini e una donna a sollecitare la nostra attenzione, mentre a rilento
galleggia dentro una pozza di Kuala Lumpur. Se le etimologie estetiche
sono variate, non certo questo vale per i corrispettivi significati di
solitudine, emanata da ogni frame della pellicola. E
se ieri come oggi l’acqua cade scrosciante dai tubi e dal cielo come dai
peni, dopo Il gusto dell’anguria la sessualità
recupera un suo sfogo materiale di cui prima non godeva il cinema di Tsai Ming-Liang,
evocando un senso dell’erotismo vissuto in terza persona da chi
preferisce imporre godimento a sé attraverso la masturbazione degli altri.
Piani fissi interminabili che si stagliano nella memoria come imponenti marmi
ingigantiti dalla magnificenza del cinema, omaggiata
da Tsai con Goodbye
Dragon Inn, e ai quali la giuria internazionale
assegnò già nel 1994 il Leone d’Oro per Vive l’amour, rendendosi subito conto della loro grossezza.
(20/09/06)