IL CIGNO NERO di Darren Aronofsky
REGIA: Darren Aronofsky
SCENEGGIATURA: Mark Heyman, Andrés Heinz, John McLaughlin
CAST: Natalie Portman, Mila Kunis, Vincent Cassel, Winona Ryder
ANNO: 2010
GUARDATELO E BASTA (IL CIGNO NERO E’ UN CAPOLAVORO E QUESTA RECENSIONE NOIOSA)
Ci si ritrova davanti al nuovo capolavoro aronofskiano. Aggettivo, di nuovo, significante tutto e nulla, volendosi porre la domanda «Che cos’è il Cinema di Darren Aronofsky?», perché la risposta risulterebbe banale, qualunque essa fosse. Guardatelo e basta, le parole non servono.
S’è sempre detto per accostamenti alti: tsukamotiano, cronenberghiano, fino a saltar fuori ora un semplice lynchano sfruttato per qualsiasi cosa mostri allucinazioni non metodiche; ma si tratta solo di somiglianze, per nevrotici ritmi e mutazioni, sociologiche deformità ed escrescenze, geometrie mentali (presentate come) complesse. Le abbiamo tutte, ma basta il semplice fatto della compresenza, e del conseguente riequilibrio, per far risaltare differenze, mancanze, personalismi: quell’accomunare da Pi greco a Il Cigno Nero che è l’ossessione per un tremendo compimento finale, un’illuminazione, un’inondazione, un big bang di cui i presupposti sono raccontati come di una drammatica crisalide, come di una bomba lirica e sinfonica che sta per esplodere e che deve esplodere, positivamente, a prescindere dalle implicazioni. Ma sarebbe ridurre, in parte, all’intreccio. E le parole che adesso seguiranno saranno solamente noiose. Guardatelo e basta.
SOGNO SIAMESE (IL CIGNO NERO VS. THE WRESTLER)
E si era già detto della rottura stilistica, della decapitazione autoinflitta, che separava The wrestler dai film precedenti: da impressioni ortogonali d’aria rarefatta a scalpitii documentaristici d’aria sporca, dai tris paralleli di personaggi-icone all’insistere su un solo corpo/mente/ammasso di carne/relitto/eroe. Ora, e difatti sulla carta i due nascevano come un’unica vicenda, tra The wrestler e Il Cigno Nero, un proseguimento, d’idea e di stile, è palese, ma non si tratta di gemelli siamesi: i due condividono la stessa pelle, che superficialmente è tremula e fatta di grana 16mm, ma sono corpi diseguali, uno la deformazione dell’altro (in infinito rimando, così che qualsiasi dovere registico venga a cadere), uno il residuo viscido che inficiava l’altro, uno le parole e l’altro la voce, occhio destro e occhio sinistro (di colori diversi, come quelli di Mila Kunis). E con tutta probabilità, se il loro fosse un unico corpo perfetto, The wrestler sarebbe la faccia con cui presentarsi, o il culo: il posto comodo su cui poggiare ed edificare l’incubo messo in scena da Il Cigno Nero. Perché, similarmente a The social network di David Fincher, The wrestler era condito di tutti quegli elementi, necessari, per una certa empatia generale, per l’accettabilità, agganciandosi a immaginari diretti, a conflitti autodetermina(n)ti; quel condivisibile che dà tanto l’impressione di sacrosanto auteur, quell’attenzione all’”afflizione umana” che piace ai bambini con i baffi dall’alto profilo morale; di cui Il Cigno è libero, per dedicarsi all’acerrimo nemico dei salotti: il cinema di genere, in cui Aronofsky sprofonda, senza ritegno, con gloria, per fare il suo Cinema, per dar vita al suo nuovo angelo caduto (o che deve ancora iniziare a volare). Il Cigno Nero è il significato di The wrestler venuto finalmente alla luce e reso inconfodibile, e, allo stesso tempo rimpastato, rimaneggiato, spogliato, spolpato, (s)mascherato – dei colori, del glam, delle parole, delle intessiture relazionali, dei rapporti fisici (non solo sessuali).
«IN THE CAVES ALL CATS ARE GREY» (RECENSIONE VERA E PROPRIA)
Perno di The wrestler: rapporto Randy-Mondo, odorante di redenzione e di dovere, di ascesi e necessità, di darsi come rockstar, di essere per gli altri, di esaltarli, di morire per il colore e per la folla, per gli applausi; mentre ogni silenzio è miseria. Ed in Il Cigno Nero, il ribaltamento: la relazione è tra Nina e se stessa, edAronofsky annienta la divisione tra corpo e pensiero, tra ossessione e lena, tra autolesionismo ed eleganza.
Cigno bianco, cigno nero: cigno grigio, un piccione. Parapsicosaffothriller, Black Swan è prima di tutto un’immersione nel non-colore, solo poco rosa pallido è concesso; e del sangue, talvolta, mentre tutto è plumbeo, ovattato come la moquette color inquinamento degli anni ottanta. Si respira fumo, metallo e tossicità urbana, metropolitana (in cui si compie, nello zero del percorso casa-palestra, il primo passo nel delirio). Come alla soglia della cecità, il vigore cromatico è defunto, la fantasia forse non c‘è mai stata, ma solo (in)autentica determinazione, agognare perfezione; è uno sbiadito portarsi in giro il desiderarsi: la macchina da presa è incatenata a Natalie Portman, e Natalie Portman è inchiodata ai propri pensieri, di cui abbiamo solo indizi, allusioni, dialoghi determinanti (tanto cardinali che potrebbero essere sostituiti da didascalie, rendendo il film un’unica immensa sinfonia), senza un’effettiva espressione da parte sua, dandoci in pasto alla sua semi-soggettiva (sia per le inquadrature spesso alle sue spalle, sia per il suo non-essere-mai-totalmente-se-stessa), alla sua tristezza senza nome, alla sua metamorfosi magnifica.
Papera storta, cigno maestoso, sguardo perso nel vuoto, smorfia di dolore inespresso. Corpo impubere e frigido, perfetto ed incapace, carne senza ormoni, volto all’inorganico: piedi sanguinanti, capelli imprigionati in una cipolla, pelle come semplice sacchetto d’ossa, vomito, eros impossibile. Rimane: graffiarsi, violentarsi, farsi oggetto senza persona («E tu chi sei?» – «Una ballerina»), sostituir(si al)le percezioni, amarsi odiandosi, o viceversa; in una sola parola: devastarsi, dentro e fuori. Odore di Repulsion. Nina ha smesso di cercarsi, e non si è mai avuta; è trasmigrata dal nessuna parte a ovunque: se The wrestler era un ritorno al Tutto, Il Cigno Nero è un completarsi del Nulla. Un tunnel di cenere, di luce fioca, come di un’esplosione in reverse di cui solo alla fine vediamo la deflagrazione in un bianco totale.
Aronofsky non si piega, e tutto è una cloaca di sofferenza, lo spurgo sporco di una lavatrice dell’anima: con la forza di un Gaspar Noé (ma è una costante più o meno intatta del suo Cinema) tratta ogni scena come se fosse l’ultima, tralascia qualsiasi introduzione accademica e smaterializza un possibile twist spargendolo per tutta la durata, dichiarando fin da subito che quel che si vedrà è un non-gioco di reale-non reale, in cui mettere insieme i pezzi non è né necessario né opportuno, fatto di pura tensione musicale in cui fotogrammi subliminali valgono tanto quanto scambiare corpi e personalità più e più volte, disegni si animano e specchi rimangono vuoti, abissi del riflesso orrorifico che sempre ci si aspetta (ma anche della troupe cancellata digitalmente in invisibile computer grafica (per inquadrature altrimenti impossibili)). Clint Mansell remixante Tchaikovsky non invade mai, come invece banalità vorrebbe, e le scene di ballo mandano a fanculo qualsiasi grazia televisioneggiante, rimanendo di squilibrata e completa macchina a mano, di unico ed assoluto vortice, naturale ed irreversibile come la forza di gravità, bombardamento cinematografico che paralizza lo sguardo, spolpa il tempo e il quadro, che lo rende inferno e paradiso, completo ed incolore, dove il desiderio visivo/visionario è libero e al contempo imprigionato, a ragione, nel suo essere sconfinato. Perchè Il Cigno Nero è soffocante e sconfinato, in ogni tremolio, in ogni stacco, in ogni suono, in ogni scelta.
PASSO D’ADDIO
«Che cos’è, dunque, il Cinema di Darren Aronofsky?». Un uomo che riesce a fissare il sole, un computer che si accorge della vita; perdere parte la testa, perdere parte il corpo; un bouquet che nasce da una ferita, un nuovo big bang; un ultimo grande spettacolo: brillare, splendere, null’altro che diventare una divinità (assente), trasformarsi in dio, un’unica possente volta. La mente, il corpo, l’amore, il dovere e l’esistenza (e poi quel che altro sarà con Wolverine) che giungono a compimento massimo. Sì, ok, ma quanta riduzione inutile e contenutistica. Ma nemmeno: l’epico fuoco narrativo fatto di puro Cinema.
Il cinema di Darren Aronofsky è essere aronofskiano, null’altro. Così funziona per tutti i grandi Autori, null’altro.
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