IL GRANDE GATSBY di Baz Luhrmann
REGIA: Baz Luhrmann
SCENEGGIATURA: Baz Luhrmann, Craig Pearce
CAST: Leonardo Di Caprio, Carey Mulligan, Tobey Maguire
NAZIONALITA’: USA, Australia
ANNO: 2013
USCITA: 16 maggio 2013
A HEART THAT HURTS IS A HEART THAT WORKS
Sotto il densissimo mantello di Baz Luhrmann, fatto di pailettes e lustrini, di fuochi artificiali e coriandoli, di musica assordante e trés trés cool, tra feste verso la fine del mondo e volti luccicanti in mezzo all’anonimia, si trova un cuore che pulsa dolore e che vive di fantasmi. E’ quello di Leonardo Di Caprio, qui già miraggio e ombra fatiscente, forse addirittura allucinazione fuori tempo massimo, (etr)ange perdu e alieno in un mondo superficiale costruito su misura. Entra in scena solo dopo una ventina di minuti e s’impossessa della pellicola con l’immensità della sua presenzassenza, dritto in un olimpo riservato a pochissimi: la nostra lista per una politique des acteurs. Lui, che qui come altrove, ha la stessa fragile consistenza dell’innocenza perduta, di un cuore che soffre con empatia e dunque, di un cuore che funziona. Granitico e toccante, è attorno ad esso che Luhrmann costruisce questo universo fittizio fatto di spazi che si moltiplicano all’infinito, scenografie e specchi pronti a cadere e disintegrarsi in quanto fatti di astratto cartone; era così il circo di Moulin Rouge ed è così per la villa di Gatsby: null’altro che la proiezione di una speranza e un sogno irraggiungibile. Si torna sempre dalle parti del Wellesiano Citizen Kane, e qui il rosebud è un fiore che ansima di dolcezza e veleno, come l’amore interrotto dal tempo e dalle avversità: la speranza è quella di un revival ostinato e drammatico, senza capire che i tempi andati erano perfetti proprio perchè andati, finiti, irripetibili.
Ne Il Grande Gatsby, c’è un tentativo disperato di sovrimprimere il passato col presente, anche solo per il fatto automatico che si tratta di un remake, e a sua volta di un adattamento di un classico della letteratura. E’ per questo che ci si perde continuamente, in quanto ogni possibile linearità è soppiantata dall’esplodere barocco di labirinti sia spaziali che temporali, con un Luhrmann sotto acido che vede nel 3d la sua arma principale per quadruplicare le direzioni e gli sguardi. Non sorprende dunque vedere come in mezzo a questo caos, è il film stesso a perdersi, a ridursi in briciole e frammenti, con tanto di personaggi che cedono totalmente di consistenza a metà pellicola (Elizabeth Debicki, che dal secondo tempo è manichino muto disegnato sullo sfondo). Il film di Luhrmann è un vortice pronto ad inghiottire tutto, megalomane nei suoi 142 minuti di durata, oggetto libero ed incontrollato: all’autore di Romeo + Giulietta non è mai interessato la strada giusta, quanto la sua ombra in dissolvenza, il trucco illusorio, contemporaneamente vero e falso, vivo e morto, concreto e astratto, guardacaso definizione ontologica del cinema per eccellenza. Per questo, Il Grande Gatsby è immenso ed infinito, pantagruelico e dispers(iv)o, bellissimo e senza speranza, dei tableux vivants di LaChapelle che confermano Luhrmann come uno degl’autori di punta del post-modernismo più lisergico. E prima che Lana Del Rey inizi a scioglierci con la sua limpidissima voce ectoplasmica, Leonardo Di Caprio è sotto la pioggia col cuore in mano, mai così nudo e indifeso, eroe d’altri tempi che ha la fierezza di un tragico innamorato. Nei suoi occhi, il riflesso di un’utopia.