IL SAPORE DELLA VENDETTA di Niels Arden Oplev

REGIA: Niels Arden Oplev
SCENEGGIATURA: J.H. Wyman
CAST: Colin Farrell, Noomi Rapace, Dominic Cooper, Terrence Howard
NAZIONALITÀ: USA
ANNO: 2013
TITOLO ORIGINALE: Dead Man Down
USCITA: 14 marzo 2013

MR.&MRS. VENDETTA

«E’ solo dopo che aver perso tutto che siamo liberi di fare qualsiasi cosa» – diceva Tyler Durden, il personaggio di Brad Pitt in Fight Club. Messa da parte l’insita filosofia nichilista di Durden, le parole sembrano sposarsi benissimo con la natura di Victor (Colin Farrell), protagonista di Dead Man Down. Quando vediamo il nuovo film dell’acclamato regista Niels Arden Oplev (già autore della versione svedese di Uomini che odiano le donne), almeno nei primi minuti, si ha la sensazione che il plot sia tipico del revenge movie: la storia di un uomo cui è stato tolto tutto, in una maniera violenta e inconfessabile. Un uomo disposto a tutto pur di conoscere il sapore della vendetta e che per farlo è costretto a battere tutte le strade della violenza, in maniera altrettanto inconfessabile. La sparatoria iniziale ne è un esempio: ci dà prova della sua freddezza, della sua abilità da killer e della sua devozione alla banda del boss Alphonse Hoyt (Terrence Howard). Ma la premessa di Dominic Cooper, proprio all’inizio del film, ci torna in mente come un monito, e ci rendiamo conto che in realtà già ci aveva messo la pulce nell’orecchio: «Avevamo fatto progetti, ma la vita è quello che ti capita mentre li stai facendo…» – dice, per poi proseguire con l’effettiva chiave di volta del film, «Anche il più sanguinante dei cuori può essere guarito».

Quindi Dead Man Down non è soltanto quel film ascritto nella categoria del revenge movie, non è soltanto l’esordio americano di un buon regista danese, corteggiato e desiderato da Hollywood negli ultimi anni. No. Questo film sembra volerci dire qualcosa di più. Ed ecco che entra in scena Beatrice (una Noomi Rapace che speravamo di vedere decisamente più in forma), una ragazza francese sfigurata da un incidente d’auto causato da uno che ora è tranquillamente e vergognosamente a piede libero. Ecco la parte sentimentale del film, la parte migliore, quella che affonda le sue radici stilistiche e registiche nella tradizione cinematografica europea da cui naturalmente Oplev attinge: sono quasi poetici i momenti descritti da primi piani e campi larghi in cui i due protagonisti si conoscono parlando al telefono, immersi in questa fredda e algida architettura di grattacieli e cieli nuvolosi. Due anime solitarie sommerse da un peso inesprimibile, rese sole dalla violenza che scorre nelle vene della città. Sole, eppure unite tra di loro. Unite nell’ideale della vendetta nel momento in cui Beatrice chiede a Victor di uccidere l’uomo che l’ha sfigurata. Forse è proprio la ricerca della vendetta ad averli resi soli, ad averli trasformati in dei reietti della società. Ma questo non basta, almeno per lo spettatore…

Il film sembra proprio essere scisso in due personalità, due binari paralleli che (in qualche modo, forzando un po’ la mano…) s’incontrano alla fine del percorso. Il primo binario, che rappresenta forse la personalità dominante del film, è quello che affonda le proprie basi nel gangster movie americano più recente, con idee narrative che ricordano la sfida tra gli infiltrati del capolavoro scorsesiano The Departed oppure The Town di Ben Affleck. Ma è difficile rendere credibile una banda di gangster quando la si vede girare a piede libero per New York con cannoni a mano o fucili, seminando panico e morte per le strade senza che alcun poliziotto tenti di adempiere il proprio dovere. Anche se, per dover di cronaca, va detto che Oplev ce la mette tutta nel confezionare scene d’azione spettacolari e valide, degne dell’industria cinematografica americana che l’ha tanto voluto.

D’altro canto, il binario sentimentale ci offre il lato più apprezzabile del film, riuscendo, anche se a stenti, a tessere la tela di un’atipica love story fatta di tira e molla, di “vorrei ma non posso” fino. Altro compito affidato ad essa affidato è la costruzione di un background dei protagonisti, operazione che non riesce appieno: lei vive con la madre, una Isabelle Huppert ai minimi storici, che cerca di spronare la figlia a reagire, a riprendere in mano la propria vita e a ignorare quei teppistelli adolescenti di quartiere che la chiamano Mostro. Lui ha incontri regolari con il suocero (F. M. Abraham), che gli fornisce un arsenale degno di Batman e con il quale ricorda i tempi andati della tranquillità famigliare. Inoltre ricorda un po’ il Tom Cruise di Minority Report di Spielberg, quando da solo, in una casa che è una topaia, guarda scorrere le immagini della sua famiglia proiettate sopra pareti di progetti, fotografie di nemici, bersagli, fucili e pistole, mentre la voce di sua figlia riempie la stanza. E’ questa forse l’immagine che più riassume e che più soddisfa di Dead Man Down, l’immagine di un uomo e di una donna solitari che vivono di ricordi, della speranza nella vendetta, come fosse un credo, che vivono di malinconia.

Nonostante questo però, per lo spettatore è veramente difficile simpatizzare per un protagonista dal tono decisamente troppo algido o per una Noomi Rapace che non ha mordente. Gli stereotipi abbondano, ma il regista tenta comunque di condire una sceneggiatura di per sé non brillante con qualche colpo di scena e una regia tutto sommato agile e a volte notevole, rendendo il film almeno non troppo pesante. Un punto di forza può essere considerato un’atmosfera visiva azzeccata: il direttore della fotografia è il Paul Cameron di Collateral di Michael Mann, e qui il suo lavoro è apprezzabile nei suoi giochi cromatici tra quei corridoi fatti di mura e vetrate che sono le strade newyorkesi. Nella sostanza un film a metà, che non stupisce, senza guizzi che fanno sgranare gli occhi o colpi di scena da mozzare il fiato, ma che comunque si tende a considerare come un sacco mezzo pieno piuttosto che come un sacco mezzo vuoto. 

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