L’INCREDIBILE HULK
REGIA: Louis Leterrier
SCENEGGIATURA: Zak Penn
CAST: Edward Norton, Liv Tyler, Tim
Roth
ANNO: 2008
A cura di Pierre
Hombrebueno
DIFFIDARSI DEI FALSI PROFETI
Con Danny the dog Leterrier ci aveva semi-folgorati
col suo dinamismo e la forza con cui la messa in scena trafiggeva
magnificamente le immagini ed il ritmo, complice sicuramente la produzione di
una personalità del calibro di Luc Besson, ma anche le demiurgiche
coreografie di Yuen Woo-Ping. Narrativamente parlando, il regista cerca di proseguire una
qualche sorta di coerenza nella sua ultima opera: anche L’incredibile Hulk, come già Danny the dog, parla di una creatura mostruosamente
forte ma incontrollata, se non dall’affetto di chi gli ha dimostrato
amore ed umanità, Morgan Freeman nel
caso di Jet Li
e Liv Tyler in
quello di Edward Norton. Se
questa traccia tematica faceva ben fottutamente
sperare, considerando anche gl’ottimi risultati lirici del precedente Hulk firmato Ang Lee, il
lavoro di Leterrier
si dimostra invece ben presto un fottuto passo
indietro: non solo il dualismo uomo/mostro(eroe?) sta superficialmente sullo
sfondo dei cazzotti e delle esplosioni, ma l’intera messa in scena del
film mostra perfettamente le incapacità di un regista nel gestire il Cinema (la
cinematograficità) se lasciato abbandonato senza una
forza più grande a guidarlo. Qui, Leterrier è a mani
nude. Non ha nessun Besson
o Woo-Ping
a parargli il culo.
Risultato sintetico: il film è quasi interamente girato come fosse
stato fatto dal peggiore dei cani, mentre quelle pochissime scene
interessanti nonché enfatiche se non addirittura commoventi, lo sono solo in
quanto rimandi ad immagini e poetiche altrui.
Il momento nella grotta è senz’altro sublime. Magnifico, evocativo, fottutamente romantico e triste quanto basta per provocare
emotività nei cuori deboli come il sottoscritto, eppure altro non è che deja vù
(e per questo, funzionante) dell’intuizione Jacksoniana
in King Kong (per non andare fino a Gabrielle-Suzanne Barbot de Villeneuve, indirettamente una delle menti più citate
della Storia del Cinema), il mostro che in fondo così mostruoso non è, a patto
che abbia la sua bella di fianco, l’umanità che trapela dietro la
maschera e l’apparenza. E ancora, qualche
trovata simil ironica e scorrevolmente divertente (la
scena in taxi), bagliori di luce ed intelligenza sparsi qua e là, rari come
acqua nel deserto e per questo ancor più memorabili di quanto meriterebbero di
essere ricordati (e poi dimenticati).
Per il resto abbiamo le classiche tematiche Marvel, la lotta contro il proprio alter-ego,
il rifiuto dell’anormalità, blablabla e blablabla, (s)oggetti necessari per contratto ma comunque
il possibile inizio (iniziare) qualcosa – punto base del raccontare eroistico, eppure attraversate da Leterrier con la stessa velocità
con cui salteremmo fuori da un edificio che sta andando a fuoco. Ne L’incredibile
Hulk c’è tutto ma in verità non c’è
niente, è un film di short answers incapace di
approfondire con dignità almeno una delle tante fottute
(solite) tematiche che tira in ballo, come se Raimi non abbia insegnato praticamente un cazzo
coi suoi tre Spider-man,
come se Ang Lee fosse
ormai ricordo vago da seppellire il più fugacemente possibile.. per carità, lui
è troppo Auteur, troppo fuori bersaglio, illuminato
nel suo essere diverso e pretendere un (approccio al) Cinema diverso.
Ciò che Leterrier
fa del personaggio Hulk è svuotarlo pian piano delle sue potenzialità
introspettive (di sicuro la parte di maggior interesse per una mitologia di
questa portata), per lasciare più spazio possibile all’azione, al leccare
il culo alla deficienza di
massa che invade le sale. La lotta tra l’uomo Verde e
l’Abominevole, che probabilmente si rifà in lontananza ai Godzilla
giapponesi, è fra i combattimenti più miseramente tristi a cui abbiamo mai
assistito in vita nostra, peggio di qualsiasi schermo blu-verde-rosa-arancione,
l’artificializzazione della carne che diventa
disegno impossibile da amare ma anche solo da contemplare, imprendibile perché
lontano da cuore e mente, il cui occhio, unico organo sensoriale che può/deve
funzionare, rimane in un al di là anestetico: stanno cercando di fotterci, o forse siamo già stati fottuti. La verità è che le lacune maggiori
dell’approccio di Leterrier
risiedono proprio nelle scene che lui predilige di più, ovvero quelle
d’azione, dove mai per mezza sequenza si privilegia
di qualsivoglia dinamismo o costruzione virtuosa; sembra quasi che la regia,
complice il montaggio di tre babbei usciti dal nulla (di cui uno il montatore
di Asterix e Obelix alle
Olimpiadi, capiamoci), non abbia
voluto costruire, bensì decostruire i sintagmi: i raccordi, soprattutto quelli
scalari, sono quanto più di caco-visivi si sia visto al Cinema dai tempi di non
so quale precedente merdata, dove ad ogni taglio
d’inquadratura ne succede sempre uno totalmente ed inversamente
semi-casuale.
Passi l’apparente-interessante trovata di confinare la trasformazione del
protagonista nel fuori campo o nel fuori fuoco fino a metà del film, ma il
tutto si riduce a nient’altro che inutilità in quanto
Leterrier
non solo è incapace di concederle enfasi e climax, ma priva anche alla macchina
Cinema di riflettere ancora una volta sul rifiuto di sguardo, sulla bipolarità
dell’occhio e della percezione, dell’alter-ego che ormai sappiamo
essere in verità dentro ogni essere umano, non solo in quello dei personaggi Marvel.
Mi si conceda l’uso del dualismo cronenberghiano
(disumano) della “carne e psiche”, che qui sono totalmente a farsi fottere: La prima non sussiste in
quanto inscalfibile, materia verde che sta fra
astratto e virtuale, immaginazione e imitazione; la seconda invece è in una
dimensione di stasi che ben presto diventa macchietta se non stereotipo.
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