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INVICTUS. L’INVINCIBILE
REGIA: Clint Eastwood
SCENEGGIATURA: Athony Peckham
CAST: Morgan Freeman, Matt Damon, Tony Kgoroge
ANNO: 2009
A CURA DI PIERRE HOMBREBUENO
WE CAN BUILD A NEW TOMORROW, TODAY
Sfidiamo i lettori a trovarci un autore più coerente di Clint Eastwood nel Cinema di oggi, così cristallino nel mostrarci
il proprio percorso (personale e artistico) senza brogli, lucido e
trasparente come nessun altro. Invictus
è nato ora perché doveva nascere solamente ora, in questo frangente della
carriera di Eastwood, per il
semplice motivo che non avrebbe avuto senso parlare di perdono 15 anni fa,
quando con Gli spietati (il cui
titolo originale, Unforgiven,
significa proprio “Non perdonato”) William Munny trovava nella
vendetta l’unica via per la catarsi e la rinascita. Anni lontani,
attraversati da un percorso e una riflessione spirituale che passa dal
pessimismo shakespeariano di Mystic
River fino al definitivo voltapagina con Gran Torino, la
purificazione in cui convergono tutti i fantasmi eastwoodiani finalmente
esorcizzati, lavati, rinnovati sotto la luce di un nuovo domani, un futuro a
cui stavolta Eastwood sembra voler
guardare con saggia serenità, alla soglia dei suoi 80 anni. Walt Kowalski
scopre quindi il valore del sacrificio, morendo folgorato in
un’immagine cristologica, e che in questo Invictus ha il suo continuo più necessario nel sublime
mistificare, parlare finalmente di perdono. Clint Eastwood, allora, sta diventando un nuovo Gesù Cristo,
avviandosi verso la beatificazione dopo le precedenti passioni (tutte carnali
e fisiche): il suo Cinema è la fine di un’eclisse che sta finalmente
rivelando il sole pian pianino, ecco perché in quest’opera la fotografia
di Tom Stern si apre finalmente ai
colori chiari, a cromatiche abbaglianti, lasciando dietro di sé il gioco di
ombre che tanto avevano caratterizzato il precedente Cinema del nostro
Autore.
Come già col dittico Flags of our
fathers / Letters from Iwo Jima,
Eastwood indaga l’unione e
non più la diversità (e d’altronde così ha fatto anche nel rapporto tra
il veterano Kowalski e i suoi vicini di casa asiatici), penetra in entrambe
le fazioni (Nelson Mandela e François Pienaar) per unificare le
divergenze, in un (fare) Cinema sempre più globale, capace finalmente di
trovare negl’occhi dell’altro gli stessi valori e le stesse
paure, le medesime speranze. Eastwood
ha la bellezza e il fascino che solamente l’età della consapevolezza
può avere, gli anni dell’esperienza e della saggezza che sono gli
stessi che vediamo ricamati sul viso di Mandela
/ Morgan Freeman. Ecco perché la
scena più bella e suggestiva del film è quella della visita di François nella
cella del neo-presidente: è in quell’istante che si compie la
metempsicosi, l’unirsi di due corpi e due spiriti in un’unica
entità (e valore, cuore), mostratoci meravigliosamente da Eastwood attraverso
un’espediente così evanescente e retrò come la sovrimpressione. Ancora
una volta, l’autore de I ponti di
Madison County è fuori tempo massimo, perché nessun altro regista
americano mainstream usa più la sovrimpressione, quest’arma
cinematografica così caratterizzante di certo Cinema impressionista, eppure,
più che mai, non riusciamo ad immaginarci un modo più efficiente per
sottolineare la simbiosi, l’unione, la spiritualità. Eastwood non è mai stato un moralista,
per questo il suo Cinema grida autenticità e si cosparge di tante immagini
capaci di congiungere tutti i suoi personaggi sotto un’unica poetica
mai statica ma in continua fibrillazione, sviluppo. Non conosciamo lo
sceneggiatore Anthony Peckham e siamo troppo pigri per fare
2 ricerche su Imdb, ma è ormai chiaro quanto poco conti lo script in un film
di Eastwood: lui è capace di
appropriarsi di qualsiasi storia, personalizzandola e rendendola necessaria
al proprio percorso. A parlare per lui, come tracce chiare di
un’autorialità, sono le inquadrature e i suoi tempi, le sue immagini
ricorrenti: il protagonista che si sveglia al buio, accompagnato da lievi
note che sanno di pioggia (e quindi, di filmicità) / un volto pensieroso che
guarda attraverso le vetrate di una finestra / un’espressione del viso
che osserva senza controcampo, perché un primo piano che contempla il fuori
quadro scava nell’anima più di qualsiasi altra alternativa / di padri
con figlie assenti, di figli senza padri. Attimi e suggestioni che ritornano
qui, in Invictus, che, con buona
pace della critica più idiota, si rivela ancora una volta totale, pezzo
imprescindibile di un puzzle sempre più bello e completo, umano. Invictus è trasparente, magico perché
impossibile, impossibile perché utopico, utopico e quindi sogno, sogno e
quindi Cinema, Cinema e quindi idea, idea ovvero Vita, Vita che è Mondo.
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