L’ESTATE DI KIKUJIRO
REGIA: Takeshi Kitano
CAST: Takeshi Kitano, Yusuke Sekiguchi, Kayoko Kishimoto
SCENEGGIATURA: Takeshi Kitano
ANNO: Takeshi Kitano
A cura di Sandro Lozzi
KIKUJIRO NO NATSU
Scavando nella memoria di ognuno di noi, più si va indietro nel tempo con i
ricordi, più le immagini sono fisse. Pensando alla propria infanzia, ciò che
viene alla mente è una serie di diapositive, di fotografie. Di cartoline. Paradossalmente, al contrario, i sogni che ricordiamo più
facilmente e in maniera più fluida sono proprio quelli che facevamo da bambini.
Da queste semplici osservazioni parte la messa in scena de L'estate di Kikujiro, ossia il viaggio iniziatico
secondo Kitano, l'avventura di due bambini, uno di 9
anni e uno di 52, in cerca di qualcosa che non hanno, nella campagna
giapponese.
Ogni capitolo di questa storia ci viene dunque proposto innanzitutto come lo
vede il bambino (quello di 9 anni), cioè come una
cartolina, con delle scritte a colori pastello bene in evidenza, poi come lo
vede l'adulto (si fa per dire), e cioè come parte di una favola strampalata e stravagante,
divertente anche nelle situazioni più dure o drammatiche.
Kikujiro e Masao partono
insieme perché insieme nutrono la speranza di trovare
qualcosa di cui hanno un gran bisogno, che non è tanto la madre quanto un mondo
che li accetti, un mondo a loro misura.
La prima parte del film ci presenta infatti i due
protagonisti come individui non isolati ma soli. Così Kikujiro
è in compagnia della moglie, ma pur non litigando i due sono chiaramente su
lunghezze d'onda diverse: la moglie parla per conto proprio, mentre lui
vorrebbe solo andare a sedersi e fumare sulla panchina insieme a quei tre
ragazzi che sono invece messi in fuga dai rimproveri della donna. E Masao è talmente solo che
perfino la macchina da presa se ne tiene a debita distanza, levandosi alta in
cielo sopra un campo di calcio deserto, nascondendosi dietro ai cespugli, ai
bordi della strada dove passa il bambino, o inquadrandolo sempre da un'altra
stanza negli interni in casa della nonna: tenendo in campo le geometrie delle
porte che separano la stanza in cui è Masao da quella
in cui è piazzata la mdp, Kitano
crea delle barriere all'interno del quadro, proprio come faceva Ozu Yasujiro 70 anni fa (e non è
l'unico espediente linguistico del film che proviene direttamente da Ozu). Quando Masao
trova in un cassetto le foto della madre, con due veloci carrellate Kitano ci avvicina finalmente al dramma del bambino: la
prima è in avanti, e si ferma proprio poco prima della soglia della stanza in
cui è Masao, la seconda invece sfonda le barriere, è
un carrello laterale che dal pacco postale appena arrivato (oggetto-mezzo che
ha permesso al ragazzino di trovare le fotografie) ci porta, finalmente, fino a
Masao.
Non conosceremo tuttavia mai completamente a fondo nè
Kikujiro nè il piccolo Masao, poiché la regia gioca proprio sulla nostra voglia di
scoprirli; si avvicina un po' (ad esempio, nei due piani - uno
frontale, uno di spalle - su Kikujiro nel momento in
cui vede la madre di Masao uscire con la nuova
famiglia), ma quando si accorge di dare troppa confidenza si ferma, e si
riporta a distanza di sicurezza, come nella scena in cui il protagonista ruba
il taxi. In effetti, i due protagonisti vengono
trattati alla stessa maniera dalla messa in scena, poiché, come afferma proprio
il personaggio interpretato da Kitano, "io e te
siamo proprio uguali!".
E in effetti questa perfetta simmetria si ritrova
nella scelta del titolo. E' l'estate di Masao quella
di cui si parla. La moglie di Kikujiro ha deciso che
il marito avrebbe accompagnato il bambino, poiché era il bambino che doveva
partire, non avendo altro da fare per tutta l'estate (lo si
sottolinea nei primi dialoghi del film, quando gli amici di Masao
partono per le vacanze o annunciano di stare per partire). Inoltre le
cartoline, come già detto, presentano la storia con gli occhi di Masao. Tuttavia, il nome di Kikujiro
viene rivelato solo alla fine, quando ormai per noi il
Kikujiro del titolo è chiaramente Masao:
è alla fine che tornano i conti, e paradossalmente il cerchio non si chiude,
poiché proprio una volta capita la somiglianza tra i due protagonisti, una
volta compreso che ognuno dei due aveva trovato ciò che cercava proprio nel
rispettivo compagno di avventure, ecco che i due si separano. Forse per sempre,
almeno fisicamente.
Proponendo ancora una volta il suo modo di fare cinema, personalissimo pur
danzando tra Murnau (l'acqua come elemento fortemente simbolico, anche se con valenze forse
diametralmente opposte), Ozu (le già citate geometrie
degli interni, ma anche un certo modo di lasciare il campo vuoto per alcuni -
sospesi - secondi, alla fine dell'inquadratura) e chissà quanti altri, Kitano ci lascia l'ultimo capolavoro degli anni 90, di
struggente comicità, poesia esistenziale e stravagante drammaticità.
(29/09/05)