KING KONG
REGIA: Peter Jackson
CAST: Jack Black, Adrien Brody,
Naomi Watts
SCENEGGIATURA: Fran Walsh, Philippa Boyens
ANNO: 2005
A cura di Elvezio Sciallis
KONG IS NO
MORE THE KING!
Diventa sempre più
difficile rapportarsi a certo cinema blockbuster e
bisognerebbe davvero inventare nuovi termini, nuovi tipi di linguaggio e
critica per un oggetto che ormai è sempre meno film e sempre più ibrido/nuovo
prodotto, frutto di una accurata, calibrata, precisa e
potente catena di montaggio che poco ha a che vedere con il cinema e molto con
i videogiochi, i pop corn e il dover a tutti i costi
passare il visto PG 13 per attirare i bambini (e di conseguenza strappare un
biglietto anche ai genitori).
Intrappolato (di sua volontà, altrimenti mai avrebbe avuto i mezzi per girare
un SdA o un King Kong, suoi
sogni d’infanzia) in questo meccanismo, Peter Jackson prosegue il suo processo di spielberghizzazione
e metastasizza un lungometraggio lungo più di tre ore
rigurgitante mostri di plastica, modellini di plastica, città di plastica e
anime di plastica. La violenza sublimata dall’ironia, lo sguardo
grottesco e satirico che avevano caratterizzato
l’opera del cineasta neozelandese fino al suo impatto con Monsieur Zemeckis sono qui del
tutto assenti, persi fra deliri di grandezza e manie di onnipotenza.
Jackson pensa di pasticciare con i generi e sgomita
per ottenere il minutaggio necessario a mettere in
scena un pastiche che parte come squarcio storico sulla nera fame della
Depressione, muta in commedia/love story passando attraverso per alcune
insipide riflessioni sul cinema e sulla filmabilità
dei mostri per poi approdare sulle cinetiche sponde del videogame più sfrenato.
Passano sessantasette minuti prima che l’irsuto
scimmione faccia la sua prima comparsata sulla
pellicola, sessantasette minuti di primi piani, panoramiche e controcampi dove
nulla accade, o meglio, dove accade il nulla, compreso il solito nostromo nero
che filosofeggia su Cuore di tenebra a bordo di una nave, come se tutti i
marinai del mondo leggessero Conrad e Melville
piuttosto che Penthouse e Le Ore. Un
Jack Black lasciato libero di gigioneggiare in lungo
e in largo, un Adrien Brody
impacciato nelle scene di azione e una Naomi Watts (no, NON sa urlare, ahimè!) che ce la mette davvero
tutta per cercare di interpretare un ruolo fuori da certe sue corde: questo e
altro dovranno sopportare i malcapitati spettatori prima di arrivare alla tanto
sospirata lotta fra il gorilla e il lucertolone, lotta che si risolve in un
groviglio di effettistica senza che venga spillata
una singola goccia di sangue, sangue che nemmeno le mitragliatrici degli aerei
riescono a strappare dal corpo del gigante.
Troppa, troppa carne al fuoco che comincia a soffocare sotto il peso di tanto
materiale e finisce con lo spegnersi in un mare di noia, di computer graphic e di blue/green screen (a
tratti anche maldestro…) che nulla aggiungono alla poesia delle
precedenti versioni ma che, al contrario, ci fanno nascere un lecito dubbio:
con l’attuale progredire della tecnica, la personalità del regista in
progetti come questo non conta assolutamente nulla, e fra 10 anni un qualsiasi filmaker con i dovuti mezzi produttivi riuscirà, al 100%, a
girare un King Kong “migliore” di quello
attuale.
Ci sarà chi vedrà le ombre del 9/11 dietro gli aerei che assediano la
“torre” di Re Kong nel finale, chi si esalterà di fronte alla
“fantasia al potere” (mentre al potere c’è solo il silicio
delle varie workstation Weta)
e chi recriminerà banalmente e fanaticamente sui passati, splatterosi
fasti del Maestro caduto. La verità è che per accedere
a determinati mezzi e determinati soldi il filmaker
deve per forza assicurare un determinato stile e un preciso esito di montaggio
e inevitabilmente i prodotti dei vari Raimi, Spielberg, Lucas, Zemeckis, Howard e compagnia
finiscono con l’assomigliarsi fra loro. Impossibile chieder loro di più,
forse persino ingiusto lamentarsi, il caveat emptor per chi cerca altro è ormai chiaro da qualche
anno…
Cinema pachidermico, inattuale, anestetizzato e
anestetizzante questo di Jackson, fra le cui spire ogni tanto occhieggia (i teschi, i selvaggi,
gli insettoni nell’antro buio…)
l’ombra (ma di maniera, attenti!) del regista che fu. La Bella e la
Bestia guardano sospirando il tramonto (“È bellissimo!” dice lei a
lui, sigh…), pattinano sul ghiaccio (e che il
film sia pacco dono per Natale lo sottolineano anche
gli alberi addobbati nel parco!) e si occhieggiano sprizzando erotismo. Proprio
sul più bello, alla ricerca di un condom king size, li sorprende
l’alba più livida e crudele (che, beninteso, “È bellissima!”
anche lei…) e il sogno fugge spiraleggiando giù
dal grattacielo. Senza un tonfo, senza una ferita, senza un sospiro.
(16/12/05)