KOTOKO di Shinya Tsukamoto – Orizzonti Venezia 2011
REGIA: Tsukamoto Shinya
SCENEGIATURA: Tsukamoto Shinya, Cocco
CAST: Cocco, Tsukamoto Shinya
NAZIONALITÀ: Giappone
ANNO: 2011
L’INCARNAZIONE DELLA PAZZIA
Tsuka ha vinto.
In tempi in cui Miike ha smesso il delirio, ha smesso il melò di sangue e dolori che tanto ci ha fatti innamorare al volgere del Millennio, e s’è dato ai classici e al rigore, che inframmezza ancora a produzioni popolari e divertenti, ma sempre evitando con (una) cura (che ha quasi dello studiato) l’angoscia come canale di comunicazione privilegiato, Tsuka regna.
In tempi in cui Sono s’è palesemente rincoglionito non si capisce bene sa a seguito della scoperta dei piaceri del sesso (quello vero, al di là delle perversioni malate ma su carta che ne abitavano i capolavori) o del trauma post tsunami e post-Fukushima (come la racconta lui), tanto da raccontare storie di speranza nate all’interno dell’istituzione della famiglia giapponese (una cosa su cui ha sempre sputato), Tsuka domina.
Tsukamoto Shinya, alias Tsuka per chi scrive e per chi lo adora da quando Ghezzi ne fece un pupillo di quelli della notte, di quelli che l’amore lo intendono in più di una maniera (“because the night belongs to lovers”), di quelli che ci hanno costruito sopra una musica, un montaggio, un sogno. Un giorno, inevitabilmente, succederà che come gli altri e come altri prima di lui, anche Tsuka si imbolsirà, si rinchiuderà prigioniero assetato di idee, o sfoggerà in una maniera sterile, e finirà per mancarci, come un amico più grande, come un cugino che ti ha aperto una (più di una, a dire il vero) strada nel cervello; quel giorno arriva sempre, per chiunque (lo sappiamo, lo sappiamo bene), e quel giorno anche Tsuka smetterà di riempirci gli occhi e le sinapsi dei suoi vagheggiamenti, delle sue allucinazioni. Ma quel giorno non è oggi.
Oggi festeggiamo; festeggiamo perché Tsuka, che è stato capace di scavare nella carne, nel metallo, nei pugni, nei sogni, nelle perversioni e negli angoli autodistruttivi che abbiamo tutti, e cavarci le scintille di un amore per la vita che vince su ogni schema precostituito, che vince sul dolore, che vince sulla sofferenza, un giorno s’è svegliato e ha deciso di scavare altrove, di scavare nella testa, nell’anima, nella pazzia. E ancora una volta ha fatto centro.
Ha fatto un film che nessuno ha fatto prima, un film che nemmeno lui aveva saputo, voluto fare sinora: ha fatto Kotoko. E non l’ha fatto da solo, perché Kotoko è il titolo ma è anche il nome della protagonista unica e assoluta, che ha il volto, il corpo, la voce e i pesi della/sulla coscienza di Cocco, una che la malattia (se così si può chiamare) psichica la conosce, sulla sua pelle, sotto la sua pelle. Lei è quella che Tsuka ha corteggiato, lei è quella che Tsuka ha scelto (come il personaggio di Tanaka, che ha gli occhi e le tumefazioni proprio del regista, fa nel film): l’unica che poteva essere Kotoko, che la poteva cantare, che la poteva sostenere, che la poteva sopportare senza probabilmente finire in un centro di recupero psichiatrico. Ci sono registi che fanno impazzire gli attori che gli capita di dirigere (quello danese che s’è aggiunto un Von al cognome, ad esempio), e registi che sanno far recitare una pazza per raccontare la pazzia. Tsuka sta nel secondo gruppo. E anche qui (a malincuore lo dice uno che per il danese di cui sopra nutre stima cinematografica e anche compassione umana), in questo saper ritrarre la psiche lesa, Tsuka vince.
Il resto lo fanno le vene tagliate, i proiettili sognati o solo immaginati, i lividi in faccia e le forchette piantate in una mano, le urla, la paura, il dramma di Kotoko che non capisce la realtà (o l’irrealtà) di quello che sta davanti a lei, le sue canzoni, che per un momento fanno da medicina, le gru in origami di carta, le pareti che cadono, anch’esse di carta, ché tanto di sensazioni tattili, carnali, pizzichi al cervello (o al cuoricino) ce ne fai overdose, in questo film. Ecco, Kotoko straborda: straborda di sensazioni, di vita, di cuore.
E Tsuka straborda col film, e spazza via tutti. E vince.
Ciao piccolo gnomo con gli occhi furbi e un po’ tristi, e il ghigno malefico. Sei un Grande, un grande vero. Scusa se qualcuno se ne accorge solo ora.