LA GRANDE BELLEZZA di Paolo Sorrentino
REGIA: Paolo Sorrentino
SCENEGGIATURA: Paolo Sorrentino, Umberto Contarello
CAST: Toni Servillo, Carlo Verdone, Sabrina Ferilli, Carlo Buccirosso, Iaia Forte, Serena Grandi
NAZIONALITÀ: Italia
ANNO: 2013
USCITA: 21 Maggio 2013
-ITÀLIA
Nella ricerca di una coralità rarefatta, Sorrentino non riesce a sorreggere il proprio schema né la propria (immutata) impostazione: il chiasmo de L’uomo in più risolveva il dubbio narrativo, e gli one-man-show dei film successivi riuscivano a rimanere stretti e a bendare, occhi qui e protagonisti lì, in un solo corpo ch’era vittima e carnefice insieme, sevizia dopo sevizia, con apice ne Il divo, dove tutto il materiale di partenza era perfetto soffitto da affrescare. La grande bellezza invece non ha tetto, non ha limiti: come la ragazzina action painter obbligata ad esibirsi dai genitori, internamente, Sorrentino sembra spingersi verso l’astrattismo. Ma Sorrentino è un simbolista, talvolta un cubista, talvolta un metafisico. E quando tutti e tre insieme, cercando di disperdere nella forma e nelle forme, ecco che si stoppa a metà processo, come già in This must be the place: con le tette al posto del culo e viceversa.
Sorrentino si ritrova in un’inversione senza controllo, incapace di guidare molteplici volti: il parco di macchiette, macchione, pozze e disinfettanti senza sapore con cui Servillo ha a che fare, tende a voler essere una summa di orribile realtà, di danzetta macabra, di galleria freak, ma forza/concentrazione visiva non riesce a sorreggere un risaputo (sistemi e falsità, meschinità e miseria, sfarzo e sincerità, e tutta una serie di concetti che terminano in -ità) che, per poter essere detto, per rimanere fuori dall’essere frasetta fatta tipo “nel mondo dello spettacolo”, necessita (unicamente) una forma che sia una locomotiva capace di spappolare e ricucire (ecco: la deformità imprescindibile) male ciò che investe. Le tentazioni di Sorrentino invece non possono fare a meno dell’oscillare iconico/ironico a circuito chiuso, finendo con l’impacchettare ogni scena con un aforismo elemosinante un «Citami, please», non riuscendo ad essere né un’esplorazione né un autentico coro. L’esondazione del dover dire e dello stigmatizzare si perdono, lontani e non abbastanza forti, e mentre tutti parlano e Servillo parla con tutti, sembra infine che nessuno stia dicendo niente, come nel brusio di una cena, talvolta interrotto da silenzi unanimi, anche loro senza appartenenza.
Parola, costruzione e composizione hanno sempre avuto la precedenza nel suo Cinema, e tutto andava bene finché v’era un solo personaggio al centro: ne La grande bellezza vince invece l’ingordigia di tutte e tre, e tutti sbavano oleosi commenti sul mal de vivre, sulle proprie maschere, sul loro fallire e il non voler accettarlo e qualsiasi altra nausea su un qualsiasi qualcosa-system possibile (radical in età pensionabile o pseudohipster di vent’anni: il discorso non cambia e non cambierebbe (ché il Cinema non è una medicina), se non che con i secondi ci sarebbe almeno un level-up formale); l’oscillare onirico acceca, roboante, nenia fuori ritmo senza graffio nelle immagini (con la sola scena della clinica, Sion Sono (tanto per scomodare gli déi) avrebbe dato l’inferno allo schermo), scomposto innesto irriflesso dei trademark sorrentiniani (suore, silenzi, etc); il virtuosismo eccede (non per quantità: per imposizione) tanto da sembrare e far sembrare il tutto un incipit o un climax di Johnnie To per due ore e venti, un effetto carrucola tanto concentrato da far bollare il resto come una distrazione.
Dove Garrone rendeva un possibile trionfo cinematico mezza riga di vicenda, Sorrentino va in direzione opposta, contando d’accumulo biblico: un dolly su una pescheria vale più di cento stacchi ad una festa o tra trenta scene in trenta minuti.
Non bastano dei flashback giovanili a tener insieme il tutto, tantomeno una sensualità da porno mitteleuropeo, o dei vecchi che ballano, o Servillo che sembra non sapere siano esistiti James Bond, Belmondo, Delon. Non bastano una nana dai capelli blu, Serena Grandi che sembra un babà caduto da un finestrino, le suore ultracentenarie. Non basta un love affair con la Ferilli.
I pregi del Sorrentino passato e de La grande bellezza coincidono, ma se ne stanno ognuno in un angolo della stanza, senza niente al centro, lasciando tutto vuoto e vacuo e vacillante e semiangosciante, come appunto la parola bellezza senza qualcosa che le graviti attorno o nel centro.