IL LABIRINTO DEL FAUNO

REGIA: Guillermo Del Toro
CAST: Ivana Baquero, Doug Jones, Sergi López
SCENEGGIATURA: Guillermo Del Toro
ANNO: 2006


A cura di Davide Ticchi

QUEL CHE RESTA DEL SOGNO

Quando Ophelia attraversa e supera il mondo brutale che le sta intorno per raggiungere il Fauno, quella strana creatura repellente e amabile allo stesso tempo, siamo tutti un po’ lei, nel trapasso, la dipartita delle preoccupazioni immanenti ed il completo abbandono alla fantasia del tempo. La luce che emana è avvolgente anche per noi spettatori, candida e virginale come l’arredo di una stanza dove la guerra si medita, si organizza intelligibilmente, lei illumina i piani e ai nostri occhi sembrano vacui, assurdi di fronte alla bellezza che sta nella fantasia di una bambina, all’incorruttibilità del suo animo forte e labile al contempo. Resistere alle incredibili barbarie cui Guillermo Del Toro ci rende spettatori è difficile per noi ma sembra quasi abituale e irrilevante per Ophelia, portatrice di un nome shakespeariano che la conduce a immaginare una storia di coraggio, ferree regole, finalizzata al recupero dell’immortalità umana. Un incarico inaspettato ma che si confà perfettamente allo spirito creativo e impavido dell’età infantile, capace di muovere massi e animi arrugginiti con la sola forza di un pianto o di un grido trattenuto. Ophelia invece sprizza solerzia da ogni poro, consapevole della responsabilità che ha, si sente la prescelta, la futura regina di questo incredibile viaggio oltre i confini della realtà, che potrà, forse, concludersi solo con l’approdo all’età adulta, quella che richiede coraggio soprattutto nella vita quotidiana, nel continuo arrangiarsi esistenziale.
Questo “scampare” ai drammi, alle contraddizioni del mondo in superficie è tipico e condiviso dalle maschere di contorno di cui Il labirinto del Fauno si impossessa, tipi fissi che hanno l’esclusivo compito d’incarnare le diverse connotazioni dell’animo umano di fronte alla guerra, alla morte ed alla sopravvivenza. Come se il regista, che assume il punto di vista sia dei buoni che dei cattivi, redimendo i primi e affossando i secondi, volesse che fosse ben chiaro il fatto che tutte le figure positive del suo film valgono come proiezione del ben costruito carattere di Ophelia, in tutte le sue scanalature comportamentali. Ognuno di questi tipi asserisce il proprio univoco modus operandi, quell’unico mezzo attraverso cui tenta di raggiungere il fine più propizio e meno svantaggioso. La preghiera sembra essere l’unico strumento valido di salvezza, la remissività con cui gli attori si specchiano nell’oblò della macchina da presa è sintomo di estrema sudditanza ai fenomeni negativi di cui il mondo è abituale scenario e per cui anche ciò che sottostà ad esso appare oscuro e anfrattuoso, minaccioso e mistico.
La realtà sfrenata che Del Toro rappresenta è penalizzata però da un’eccessiva smania di realismo, di plasticità e cura degli elementi scenici e più superiormente dell’intero impianto figurativo, che già nel precedente La spina del diavolo appariva innaturale, simulato, sintetico. Qui l’aspetto viene ridimensionato da una miglior cura dell’impianto narrativo fantastico, appartenente ad immaginari evasivi burtoniani e bakeriani, da Big Fish concettualmente a Cabal esteticamente. Il divario netto, il contrasto si espleta proprio nella sublimazione all’incompatibilità teoretica di realtà e sogno, all’incastro formale di montaggio ma al suo impossibile riempimento matrimoniale. Infatti il connubio finale tra il sogno e la realtà, la rincorsa labirintica che avviene sulle note conclusive di quest’opera cupa, imperfetta ma fortemente pulsante, è quello tanto atteso, di sogno e realtà, di fuga dell’uno nell’altro, di interscambio narrativo ed estatico risolvimento. Le soluzioni formali si adeguano al concetto espresso, alla soluzione concettuale che ci fa rimpiangere di non essere più Ophelia, di non poterci più schierare.
Così se Del Toro non va tanto per il sottile, concedendo al piano della realtà eccessivo e spurio spazio estetico-tipologico, il risultante è qualcosa di trainante e magico, che dura a sprazzi ma che si fa sentire, vivo, come un albero dell’immortalità che non può più donare i suoi frutti.

(03/12/06)

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