LADY VENDETTA
REGIA: Park Chan Wook
CAST: Young-ae Lee, Min-sik Choi, Hye-jeong Kang
SCENEGGIATURA: Park Chan Wook, Jeong, Seo-Gyeong
ANNO: 2005
A cura di Luca Lombardini
TRE = NUMERO PERFETTO
Per una volta abbandoniamo le consuetudini di scrittura, mettiamo da parte il
principio e la fine del film e iniziamo dal sottofinale. Più precisamente dal
quel primo, sentito, atteso, faccia a faccia, progettato e sognato per tredici
lunghi anni, la resa dei conti che mette vittima e carnefice finalmente
l’una di fronte all’altro, a ruoli naturalmente invertiti. Una
sequenza che sembra snodarsi prima veloce e poi va pian piano rallentandosi,
trascinata dagli scatti d’ira, dalle pause, dai nervi a fior di pelle che
all’improvviso cedono alla lucida follia che affolla gli incubi e soffoca
il cuore dell’eterea Lee Geum–ja. Un maestoso momento di cinema, il
capitello che regge da solo l’intera architettura eretta dai due precedenti
episodi, è lo stesso di cui Park si serve per scagliare la pietra tombale che
mette la parola fine alla trilogia della vendetta, una lapide spessa e pesante,
fissata al suolo prima attraverso una ripetuta serie di colpi di scure,
martelli, e coltellacci da cucina, e inabissata poi da un mare rosso sangue,
che ripulisce fino all’ultima goccia l’asettico telo di nailon.
Messi da parte i tratti lineari e occidentali di Old Boy, il regista decide di servirsi della stessa tavolozza che
aveva dato vita all’astratta glacialità di Sympathy for Mister Vengeance, e costruisce un film praticamente
perfetto, che poggia le sue basi su fondamenta tecnico - stilistiche di
inarrivabile cura e bellezza, unite ad una fotografia (Chung Chung–hoon,
lo stesso delle verdi tonalità di Old Boy)
abbagliante, che enfatizza il naturale cambiamento dei colori e li lega
indissolubilmente ai primi piani e ai frequenti movimenti di camera stretti.
Una piccola oasi cinematografica, dove tutto sembra essere al posto giusto e i
momenti di realismo e di grottesca surrealtà (l’attesa dei familiari
armati e vestiti di tutto punto) si alternano in un susseguirsi di emozioni
che, a partire dagli straordinari titoli di testa, braccano mente e cuore fino
alla fine della proiezione. Qualora fosse possibile, Park è riuscito
nell’impresa di firmare un film nettamente superiore ai precedenti, summa
ideale della sua poetica, divenuta ancora più solida grazie alla crescente
presa di coscienza dei suoi mezzi, che si palesano nella solidità della factory
(gli attori sono quasi gli stessi di Old
Boy, e Lee Young–ae interpretò uno dei protagonisti di J S A ) che sta a monte del progetto.
112 minuti di cinema purissimo, che vorremmo non finissero mai, una sequenza
inebriante di effetti ed escamotage visivi (la foto che si spezza sulla porta
della cella) che lasciano senza fiato, una cornice di celluloide rara, resa
ancor più preziosa da una sceneggiatura scritta come si deve, infarcita di
riferimenti religiosi (la protagonista all’uscita dal carcere ha appena
compiuto 33 anni) e critiche ai mezzi di comunicazione (l’affollata
riproduzione dell’omicidio), che prende forma attraverso una messa in
scena della violenza stilizzata e ritualizzante, spettacolarmente divertente ma
drammatica al tempo stesso. Se è vero che il primo film che fulminò Park sulla
via di Damasco fu La donna che visse due volte, il regista riserva alla star
nazionale Lee Young–ae lo stesso trattamento che Orson Welles riservò alla divina Rita Hayworth ne La signora
di Shanghai, demolendo di fatto il suo ruolo di stellina popolare della tv,
tutta grazia e acqua e sapone, per utilizzare il suo fascino verginale come
maschera sotto la quale celare le rancorose pulsioni di vendetta, che hanno
come obbiettivo il sempre straordinario Choi Min–sik.
Park è un regista di fama mondiale, perché tratta temi universali: la morte, la
violenza e la vendetta, ma lo fa con una sensibilità e una preparazione
filosofica (non a caso in filosofia è laureato) difficilmente riscontrabile in
altri suoi colleghi orientali, anche perché in lui convivono due modi di
interpretare la vita: quello proprio della cultura d’oriente e la fede
cattolica.
Non è un caso perciò, che l’espiazione e la redenzione abbiano da sempre
un ruolo ben definito in ogni sua opera; ecco perché all’inizio del film,
la neve, simbolo di purezza e candore per eccellenza, cada a piccoli fiocchi,
mentre Lee Geum-ja rovescia in terra il tofu.
La purificazione infatti, arriverà solo durante l’ultima scena, quando in
un vicolo ricoperto di bianco, la nostra protagonista avrà portato a termine,
tra dilemmi morali e triplici ringraziamenti alla figlioletta, il suo percorso
di redenzione (“il processo” organizzato insieme ai familiari delle
vittime). Ora e solo allora, potrà immergere nel piatto di tofu i suoi dolci
lineamenti.
Per farla breve: Lady vendetta è il miglior film di Park Chan–wook, il
più grande film sul tema mai scritto, e senza ombra di dubbio il più bel film
dell’anno solare 2005.
(04/01/06)