IL LAUREATO

REGIA: Mike Nichols
SCENEGGIATURA: Calder Willingham
CAST: Dustin Hoffman, Anne Bancroft, Katharine Ross
ANNO: 1967


A cura di Marco Compiani

DAL BIANCO/NERO ALL’INFINITA’ DELLA LUCE (E DELLA VITA)

Ne Il Laureato vi sono tre Primi Piani straordinari, eterei, echeggianti l’astrazione-plastica Dreyeriana, che scandiscono il processo di formazione (rinascita) al quale Ben è sottoposto.
Già dall’inquadratura iniziale, Nichols incornicia quello che sarà il punto di vista soggettivo del film: il giovane Braddock è sospeso in uno sfondo bianco (1° PP).
Gli occhi dolcemente abbandonati nell’incertezza, sembrano fissare il baratro di un futuro generazionale sempre più lontano da possibili obbiettivi e/o punti d’arrivo. Uno stato embrionale, verginale, ancora incorrotto è pronto ad affrontare il primo vero ostacolo della Vita (e del presente-futuro): scendere al compromesso social-borghese, dal quale però Ben vorrebbe allontanarsi. (“Vorrei che fosse tutto diverso”).
Il torbido rapporto con la Signora Robinson, di pura passività sessuale, diviene così il tentativo di radicale opposizione al presente. Un fuoco erotico e freddamente carnale che illude il protagonista con un nuovo e prepotente vitalismo.
Poi, abbiamo il 2° PP, stavolta su uno sfondo nero, di Ben mentre fuma una sigaretta con gli occhiali da sole (simbolo di un’ancora imperfetta padronanza del proprio sguardo che filtrando la realtà ne impedisce un contatto diretto e attivo). In esso, ci viene irrimediabilmente ribaltata la puerile ed estraniata condizione iniziale, non con un’epifanica presa di coscienza del proprio avvenire, ma nascondendosi nelle contraddizioni morali di un mondo col quale non ci sentiamo in simbiosi. Sarà l’impatto con la propria generazione (Elein) il punto di fuga di quegli occhi persi, sognanti ma allo stesso tempo rassegnati. E quando tutto sembra andare nel verso di un ristabilimento dell’ordine Etico (fine del rapporto con la Robinson e la figlia, questa in procinto di sposarsi) con la punizione dell’(anti)eroe per il suo atteggiamento “terribile” (come lui si definisce più volte), arriva la splendida sequenza finale: Lasciata dietro le spalle la coupé (ultimo vincolo con la famiglia ) Ben corre verso la sua ragione e verso la sua unica certezza, arrivando però troppo tardi. Un urlo che squarcia lo schermo, che scuote le nostra anime, si oppone finalmente in modo squisitamente puro e irrazionale contro tutto, contro quella grottesca massa di volti coi denti digrignati, estranea al sentimento.
Come non giungere adesso al 3° PP nel quale, boicottato il matrimonio, Elein e Ben, seduti in un bus, si stagliano sulla forza liberatrice della luce (filtrante da un finestrino) mentre la folla, oramai oggetto di scherno (guardate che facce attonite- inespressive – caricaturali ), osserva stupita la scena surreale. I due, di nuovo, proseguono verso un futuro ignoto (come le scale mobili dell’inizio) ma questa volta, almeno, con la dolce e onirica cognizione di aver trovato una certezza: l’Amore.

DENTRO_FUORI IL MANIERISMO E IL RELATIVISMO ONIRICO

Un'altra indicazione direttiva ne Il Laureato, stavolta non formale ma pro-filmica, è invece l’acqua, che assume le valenze espressive di una dimensione oppressiva e prenatale, in cui al senso di esasperato claustrofobismo si oppone dialetticamente la volontà di riemergere e liberarsi dalla gabbia. Questa esplicita simbologia non viene però presentata come un semplice abbellimento decorativo, ma diviene nel suo svilupparsi una struttura articolata. Come in un gioco di matrioske, si estende dall’elemento concreto (acquario, piscina) fino ad una vera e propria condizione dell’esistente; con inquadrature volutamente contro-luce, infatti, si creano degli effetti fotografici simile al filtrare dei raggi del sole nell’acqua, sottolineando come il mondo reale sia davvero nient’altro che un’estensione della piscina.
Ma volendo, effettivamente, tutta la visione de Il Laureato è nient’altro che una costante immersione nell’onirico implicito, come se penzolassimo sul labile confine che separa il sogno dalla realtà, creando un surplus filmico che è opera dell’audace e sentita regia di Nichols, il quale coniuga scelte originali e manieristiche nella messa in quadro con un uso allucinatorio della fotografia e degli espedienti modernizzanti del rapporto diegesi/intreccio.
L’universo rappresentato così acquista un qualcosa di surreale, legittimato dalla focalizzazione soggettiva del film: il tutto infatti è visto, sentito, percepito dal protagonista che filtra e proietta nel contingente i propri stati d’animo. Conseguenza di ciò è la struttura narrativa che è dominata da un relativismo assoluto, elemento di sovversione della dimensione spazio-temporale, ormai fuori dal classicismo come etichetta di regole pre-imposte. Per questo importante aspetto sarebbe da citare una magnifica sequenza: Ben galleggia sopra un materassino in piscina, e quando entra in casa, notiamo la fusione diretta delle due dimensioni private rappresentate dall’abitazione famigliare e dalla stanza d’albergo (nido d’amore con la signora Robinson). La Mdp, seguendo i movimenti del giovane, ci trasferisce da un luogo all’altro senza stacchi, come se fosse in verità un tutt’uno. Ne consegue una fruizione estraniante ma comunque controllata da uno stile raffinato ed equilibrato, che nel contempo è procedimento messainscenico fresco e lontano dagli stereotipi precedenti, contribuendo a fare de Il Laureato uno dei manifesti della New Hollywood e di tutta una generazione giovanile che proprio come il protagonista, si sente così fottutamente a disagio nella società bigotta e immersa fra le sue ipocrisie, da cui bisogna presto o tardi sfuggire. Meglio ancora se col fascino emotivo e carisma enfatico della divina-nostalgica-poetica Sound of silence in sottofondo.

 

(04/03/07)

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