THE LIBERTINE
REGIA: Laurence Dunmore
CAST: Johnny Depp, Samantha Morton, John Malkovich
SCENEGGIATURA : Stephen Jeffreys
ANNO: 2004
A cura di Luca Lombardini
I’M UNCLEAN, A LIBERTINE..
Eccentrico, passionale, selvaggio, talentuoso,
autodistruttivo. Forse non basterebbe un vocabolario dei sinonimi e dei
contrari per definire nella maniera più esauriente John
Wilmot, conte di Rochester,
genio e sregolatezza alla corte di Carlo II, nella Londra della seconda metà
del 600’.
“Non vi piacerò, non voglio piacervi”, dice al suo pubblico Depp/Wilmot nel prologo del film.
E invece non sa quanto si sbaglia, perché questo libertino della restaurazione,
portabandiera dell’eccesso, ci è piaciuto,
eccome se ci è piaciuto.
La pellicola affascina fin dall’inizio, da quel monologo che sa di faccia
a faccia, di guanto di sfida gettato villanamente contro chi
guarda. Una sequenza irreale, nebbiosa e spiritica, che sembra la risposta in
costume all’incipit di Viale del
tramonto, un morto che parla con voce narrante e onnisciente,
non più riverso in una piscina, ma ben saldo su una sedia, calice di
vino nella sinistra, bastone nobiliare nella destra, sguardo strafottente e
prosa al vetriolo.
The libertine
può essere analizzato facendo ricorso a svariate chiavi di lettura, tra queste,
quella tecnico visiva rimane comunque preponderante. Il chiacchierato Laurence Dunmore, noto
regista di video clip, colpisce nel pieno il bersaglio, “tagliando”
la sua opera prima con atmosfere nebbiose e infangate, che di modaiolo non
hanno (fortunatamente) nulla, ma sono humus ideale dove far sguazzare gli umori
carnali e sessualmente rivoluzionari del suo protagonista. Il film si pone
quasi da subito come “fratellastro” peccaminoso di From Hell, ma di
seriale qui, ci sono solo le dissacranti commedie messe in scena
dall’inquieto Wilmot, che si fanno
beffa dei poteri costituiti, percuotendoli con enormi falli, usati a mo’
di ariete contro l’imperante facciata di perbenismo, tentando di terremotare (invano) le precostituite linee di demarcazione.
Il tutto si svolge in un’atmosfera di luce soffusa, la notte è illuminata
da fioche candele e il giorno non vede mai la luce del sole far breccia
attraverso le plumbee nubi che minacciano pioggia. La sessualità manifesta e a
tratti violenta, diviene così l’unico strumento per tentare di
sbriciolare i comandamenti comportamentali, espediente tutto borghese per
celare il sudiciume morale di una società corrotta e fangosa come le fondamenta
della sua città. In questo contesto John Wilmot non può che essere un
outcast, un ribelle, che pagherà la sua sconfitta
piagato dall’alcool e dalla sifilide, celebrando sul suo stesso corpo la
logica dell’eccesso e l’obbligata redenzione.
Al di là della sua maledetta bellezza, The Libertine rimane comunque un film difficile,
sia per le sue scelte cromatiche (From Hell rispetto all’esordio di Dunmore sembra una pellicola
solare), sia per la sua indiscutibile modernità (la sifilide come l’Aids);
ma soprattutto a causa del travaglio subito dai suoi dialoghi nella trasposizione
italiana. Quest’ultimi
infatti, hanno avuto bisogno del trattamento di ben cinque professori
universitari per essere “italianizzati”, fatto che prova la
naturale complessità della pièce teatrale originale, trasposta sul grande
schermo dal suo stesso autore (Stephen Jeffreys). L’unico rimprovero che si può muovere
al film (inteso come edizione italiana) è proprio questo: l’inglese
non propriamente scolastico, una volta tradotto, si trasforma in un
italiano a tratti volgare e un po’ fastidioso, non tanto per il
significato delle parole, quanto per il suono delle stesse.
Un’altra volta, non essendo pensabile al giorno
d’oggi un film in sala in versione originale e sottotitolata per goderci
al meglio un bel momento di cinema, dovremmo attendere l’uscita del DVD.
(01/03/06)